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La retorica contro il 1 maggio non portera’ lavoro

3 min di lettura

“Ha senso festeggiare il 1 maggio con il 40% disoccupazione giovanile?” “Festa del lavoro, ma di quale lavoro?” “Festa dei disoccupati”… e via via su questa strada slogan, frasi ad effetto, ottenute mettendo insieme un 80% di retorica e un 20% di realtà, che leggeremo fino alla fine di questo primo maggio.

retorica 1 maggio Un po’ come avviene per tutte le celebrazioni civili che ricordano un evento, un personaggio, un fatto storico rilevante. Ma il 1 maggio è diverso. Si parla di un’emergenza che tocca la carne di donne e uomini reali, non personaggi del passato, non fenomeni sociologici. Se abbiamo salvato quel 20% di realtà, è perché nessuno chiude gli occhi di fronte alla grande emergenza di questo tempo. Emergenza che, però, è ben lontana dall’essere risolta a suon di retorica.
E di retorica è farcita non solo la festa di oggi, tra nostalgici e oppositori, ma tutta la discussione sul lavoro nel nostro Paese. Tra soluzioni facili a portata di mano e nostalgici di un mondo del lavoro che non c’è più, l’Italia non riesce a liberarsi da tre grandi condizionamenti, tre vere e proprie catene, che bloccano la discussione pubblica sul lavoro, senza farla arrivare a soluzioni concrete. E il primo maggio questi tre grandi lacci si rendono ancora più visibili.
Il primo. Il pubblico non può creare lavoro, non può risolvere il problema strutturale della mancanza di lavoro. La discussione italiana sul lavoro non si è mai liberata definitivamente da decenni e decenni di assistenzialismo e di ricerca del posto al sole in qualche pubblico ufficio.
Chi governa ha un ruolo di primissimo piano nel creare le condizioni per favorire l’occupazione, nel garantire i diritti di chi lavora, di chi è precario, di chi cerca un lavoro e di chi l’ha perso. Ma non sono le mega “infornate” di assunzioni nel pubblico impiego a migliorare le cose. Semmai le peggiorano.
Come peggiorano le cose i matrimoni fasulli tra il pubblico e un certo mondo privato, che altro non fanno se non generare sacche di precarietà, lavori di dubbia utilità, progetti e progettifici che servono solo a pagare qualche stipendio per qualche mese. Penso a una parte malata di mondo associazionistico e cooperativistico che fa finta di fare impresa, eppure senza i soldi pubblici non muove un passo.
Che danneggia i collaboratori, puntualmente sottopagati mentre i capi si predicano l’egualitarismo ai convegni, e danneggiano le imprese sane che operano alle normali condizioni del libero mercato, senza privilegi. E’ questo che si intende per creare lavoro e creare impresa?
Il secondo. Una pacificazione sociale mai raggiunta veramente in Italia tra chi lavora e chi offre lavoro. Pacificazione mai raggiunta per colpa di entrambe le parti in questione.
Eppure ci sono tantissimi esempi di aziende in cui l’alleanza tra datori di lavoro e dipendenti è la strategia decisiva per rilanciare le produzioni e uscire dallo stallo delle crisi. Basti pensare a quanto avviene in tante piccole e medie aziende calabresi, che grazie al rapporto familiare creatosi all’interno dell’azienda hanno cambiato in positivo la storia di molti territori.
Il terzo. Manca lo “studio” per creare lavoro. Studio che significa rapportarsi con la vita delle comunità, con le condizioni di contesto, per capire di che cosa c’è bisogno realmente per creare impresa e rilanciare l’occupazione. Dopo tanti anni dalla chiusura della Cassa del Mezzogiorno, ancora troppi progetti calati dall’alto soprattutto nel nostro Sud. Troppe Montedison a Crotone e troppe Biofata all’area Sir lametina, per intenderci.
E’ come se sfuggisse di mano a tutti, dalla classe dirigente agli imprenditori che devono investire, che con le risorse del territorio, senza cercarle altrove, si può davvero fare economia. Non solo convegni.
Basta andare al parco Avventura di Zagarise di Massimiliano Capalbo o al primo mulino biologico della Calabria di Stefano Caccavari a San Floro.

Buon primo maggio senza retorica e più costruttivo

Salvatore D’Elia

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