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Rina Fort, 70 anni dalla mattanza di San Gregorio

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Quattro corpi immobili, inanimati: tre distesi a terra con la faccia contro il pavimento, in diverse pozze di sangue, e uno, un corpicino, seduto su un seggiolone, con il capo chino sulla sua sinistra come se stesse dormendo. Questo l’agghiacciante scenario che le forze dell’ordine trovarono la mattina del 30 novembre 1946 in un appartamento di Milano, in via San Gregorio 40 a pochi passi da Corso Buenos Aires, dopo esser stati avvisati da Pina Somaschini, commessa presso l’esercizio del padrone dell’appartamento.
È il quadruplice omicidio che passerà alla storia come la strage di via San Gregorio. Una mamma, Franca Pappalardo, e i suoi tre figli: Giovannino di sette anni, Giuseppina di cinque anni e Antoniuccio di soli dieci mesi; quest’ultimo il bambino seduto sul seggiolone che sembra dormire. La mano assassina di quella strage che sconvolse Milano e l’Italia, fu una sola o così è stato deciso durante il processo: fu Rina Fort, amante del padrone di casa, Giuseppe Ricciardi detto Pippo, commerciante di stoffe; fu lei la Belva di via San Gregorio. L’atroce delitto fu commesso la sera del 29 novembre tra le mura di casa delle vittime: il posto che dovrebbe essere il più sicuro di tutti trasformato in un mattatoio.
I sospetti ricaddero fin da subito sulla Fort che,  dopo diciotto ore di interrogatori, confessò tutto facendo però il nome di un altro soggetto, un certo Carmelo, amico di Giuseppe Ricciardi, che l’avrebbe aiutata attivamente nella mattanza. Questa versione, che portò alla temporanea incarcerazione di vari ‘Carmelo’, non trovò mai conferme valide.

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Chi era Rina Fort?
Caterina Fort nacque nel 1915 in provincia di Pordenone e, come tante ragazze della provincia italiana, si trasferì a Milano per lavorare. Qui incontrò Pippo Ricciardi, commerciante di origini siciliane, e intravide in lui  una chance di riscatto che non poteva permettersi di perdere. La vita della donna, infatti, non era di quelle che potevano definirsi felici: a dieci anni, durante un’escursione in montagna, fu testimone della drammatica morte del padre che morì cadendo da un dirupo. Intorno alla maggiore età, l’uomo che avrebbe voluto sposare, morì per un tumore; a ventidue anni, si sposò con un poco conosciuto compaesano, un tale Giuseppe Benedet che, il giorno delle nozze, esternò incontrovertibili segni di squilibrio mentale (legò la giovane sposa al letto coniugale, indossò la sua biancheria intima e iniziò a seviziarla infliggendo, poi, il medesimo trattamento anche a se stesso). Fu  internato in manicomio il giorno successivo alle nozze.

L’amore tra il Ricciardi e la Fort, nacque quando quest’ultima fu assunta come commessa nel negozio di tessuti di Pippo. L’uomo inizialmente negò di avere moglie e figli ma la donna scoprì presto che, il suo datore di lavoro/amante, aveva una famiglia nella sua città d’origine, Catania. La lontananza sembrò però star bene sia alla Fort che al Ricciardi fino a quando, nel mese di ottobre del 1946, la situazione non sfuggì di mano: Maria Pappalardo in Ricciardi e i tre figli si trasferirono a Milano ricomponendo il nucleo famigliare. La donna, informata da amici dell’infedeltà del marito, si recò nel negozio del consorte dove trovò la Fort dietro il bancone. Le due donne si guardarono e, con l’impareggiabile intuito femminile, compresero immediatamente tutto. La più giovane delle due notò un gonfiore sulla pancia dell’altra: la signora Ricciardi era incinta del quarto bambino. Fu l’inizio della fine.
La tragica sera del 29 novembre, una serata buia e piovosa, Rina Fort si recò probabilmente da sola, in casa Ricciardi per parlare con la signora Franca. Secondo una prima deposizione della Fort, ancora dinanzi la porta di ingresso, Franca Pappalardo le disse di lasciar perdere suo marito altrimenti sarebbe costretta a farla trasferire nel suo paese. Trasferitesi all’interno dell’abitazione, la Fort inizialmente avvertì un leggero malore ma, dopo alcuni istanti, si avventò contro la rivale colpendola ripetutamente con una spranga di ferro trovata in cucina. A questo punto Giovannino, il maggiore dei figli, si lanciò in difesa della madre ma Rina rivolse l’arma anche contro di lui tramortendolo sul pavimento. La Fort scaricò la sua furia cieca anche su Giuseppina e sul piccolo Antoniuccio seduto inerme sul seggiolone.

showimg2Dopo aver vibrato gli ultimi colpi, la donna uscì di casa aggirandosi per le scale dello stabile in grande stato d’eccitazione. Sapeva di dover  fare qualcosa: ritornò nell’appartamento tentando di simulare una rapina ma avvertì ancora il respiro affannato dei quattro corpi. «Disgraziata, ti perdono perché Giuseppe ti vuole tanto bene. Ti raccomando i bambini, i bambini» le disse, con gli occhi sbarrati dall’orrore, la Pappalardo distesa in terra. Rina Fort finì lei e le altre tre vittime infilando nelle loro bocche ammoniaca e alcuni panni per provocarne l’asfissia. La mattina seguente, sul pavimento, tra i corpi senza vita e il copioso sangue, fu ritrovata una fotografia stracciata: l’immagine raffigurava Pippo Ricciardi e Franca Pappalardo nel giorno del loro matrimonio.
Il processo, iniziato nel gennaio del 1950, vide Rina Fort parteciparvi con espressione distaccata, distante, come se tutto l’accaduto non riguardasse lei. «La sua sordità sentimentale è veramente un fenomeno mostruoso» scriverà Dino Buzzati su “Il Nuovo Corriere della Sera” per descrivere le fattezze surreali del comportamento dell’imputata. La donna fu condannata all’ergastolo. Trascorrse ventinove anni in carcere durante i quali, più volte, disse di essere perseguitata nel sonno dall’anima dei piccoli Ricciardi. Per esorcizzare quegli incubi, occupava il tempo a cucire e confezionare abiti per bambini. Nel 1975 il Presidente della Repubblica Leone le concesse la Grazia. Cambiò nome e si trasferì a Firenze dove morì nel 1988.

Antonio Pagliuso

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