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venezia.74, pt.7: MOTHER!

3 min di lettura

Che Aronofski non sia un regista facile ai compromessi e alle scelte di comodo era già ben noto fin dalle sue prime prove (dal Teorema Del Delirio a Requiem For a Dream): un talento abnorme al servizio di un’ambizione autoriale smisurata, entrambi perfezionati e gonfiati man mano che la sua filmografia -spesso protagonista al Lido- procedeva producendo opere sempre più complesse, sempre meno ancorate ad un senso della logica che ormai sfugge.

Mothermother! era uno dei film più misteriosi e più attesi della selezione ufficiale, e non ha tradito le aspettative, almeno per chi aspettava un film fortemente personale e fuori dagli schemi: un film, un’opera, un testo pieno di sottotesti così enorme che però sfugge al controllo sia dello spettatore sia dell’autore.
Se Aronofski ha sempre frugato tra le pieghe dell’inconscio (“più si scava nel nostro buio interiore più vediamo la luce”, sono parole sue) personale, inserendo nelle sue storie frammenti, segmenti onirici che travolgevano lentamente la trama, con Mother! si spinge ancora più in là, perché tutto il film è un’immensa allegoria così potente e allargata da poter comprendere ogni tipo di interpretazione, declinato di volta in volta a seconda del punto di vista da cui lo si osserva.
Marito e moglie -Javier Bardem e Jennifer Lawrence, che non hanno un nome nel film, come nessun protagonista del film- vivono in una grande casa al centro di una campagna, e la loro vita viene sconvolta quando alla loro porta bussano un medico e sua moglie (Ed Harris e Michelle Pfeiffer), che lentamente si insinuano nella loro vita in un crescendo che sfocerà nel sangue, per lasciare il posto ad accadimenti imprevisti e sempre più grandi.
La creazione (dell’arte, della vita, della materia), l’amore (tra uomo e donna, tra madre e figlio, tra autore e spettatore); e ancora le nuove frontiere della celebrità e dell’informazione, il rapporto con gli altri e con sé stessi, la percezione di sé e del mondo; metafore che entrano in altre metafore, da quella religiosa (c’è la Bibbia, nell’unica didascalia iniziale, e i doni per il profeta) a quella artistica, a quella letteraria: e intanto Mother! procede a grandi passi nelle geografie oscillanti e fluide dell’onirico, rivoltando la trama ad ogni angolo e frammentandola su tante strade. Mentre la regia di Aronofski, conscio del magma ribollente che sta trattando, si fa claustrofobica e minuziosamente attenta al dettaglio e ai personaggi -è un film di primissimi piani, Mother!, che sembra classico nell’utilizzo della forma ma si spezza e si segmenta nella sperimentazione narrativa più libera; la casa/alcova/paradiso rinasce e marcisce, ospitando un andirivieni di personaggi e situazioni che sembrano mirare a voler ritrarre la a dimensione più intima della Donna e invece poi si apre insospettabilmente ad un flusso surreale incontrollato.
Mother! risulta alla fine così denso di eventi e riferimenti, sottotesti e significati, immagini e rumori, da ingoiare le eccezionali prestazioni di tutto il cast, asservito ad un impianto metaforico stracolmo, tra la casa che diventa il corpo, lo scantinato buio come l’inconscio, il diamante che prende su di sé il senso dell’ispirazione artistica e poi diventa la purezza… Aronofski non si cura, e forse neanche dovrebbe, di provocare un senso di disagio nello spettatore, lasciato in balia del racconto senza una sottolineatura musicale ad accompagnarlo per indicargli lo stato d’animo del film e quindi suo; addirittura, gioca a rinnegare il senso del titolo (la maternità è solo uno dei tanti, e forse neanche il più forte, dei significati, se non in senso letterario), ma riesce a creare una ragnatela demoniaca che ritrae la confusione dell’attualità con tutta la sua difficoltà di amare, definendo una volta per tutte il suo universo cinematografico, tattile e materico sempre pronto a trasformarsi, anzi ad essere, (pre)visione onirica.

Ed in questo senso, ma anche per le sue suggestioni visive, emotive e narrative, che oggi più che mai Mother! risulta un’opera necessaria, che prende vita ad ogni visione mentre chi guarda di volta in volta contribuisce interattivamente alla costruzione di (un) senso.

Bellissimo.

 

GianLorenzo Franzì

 

 

 

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