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L’atto di richiamo: altro che Samara di The Ring!

3 min di lettura
samara

Non è un reclamo giudiziario, lo dico subito in partenza!

Una prenotazione pre-mortuaria, pensate un po’: seguitemi! A ricordarcelo è l’illustre studioso delle nostre tradizioni vernacolari, di cui ho il piacere di far rammemorare una sua testimonianza.

Nel rione Stradella viveva, in casa di una figliastra, un certo Giuseppe, un vecchio popolano che tutti, parenti e non, gratificavano, per via della sua veneranda età e della fluente barba che ne ornava il volto, con l’appellativo di zzù Peppi.

Egli era ben voluto per la sua bontà d’animo e la sua saggezza, ma era grandemente apprezzato per la sua arguzia e per il suo fine senso di humour con cui sapeva condire ogni suo discorso. Un giorno, benché non avesse mai avuto seri problemi di salute, corse voce che una strana malattia l’avesse allettato. Nessuno sapeva dire con esattezza di cosa si trattasse, ma quanti andavano a fargli visita, capivano subito, da certi deliri che, a tratti, lo assalivano, che il male che l’aveva colto doveva aver aggredito anche il suo equilibrio mentale.

Di sera, si avvicendavano, nella stanza a piano-terra, dove, di solito, era sistemato il suo letto, amici e conoscenti, per tenergli un po’ di compagnia e manifestargli la loro solidarietà, anche se era fin troppo evidente che lui, oramai, non era più in grado di dare retta a nessuno.

Una sera, però, coloro che erano andati a fargli visita (in tutto quattro o cinque persone) lo videro, ad un cero momento, alzare il capo e puntare il gomito sinistro sul cuscino, nel tentativo di girarsi verso di loro, come se volesse dire qualcosa.

Quando si fu sollevato, guardò tutti gli astanti uno per uno in volto e, alla fine, puntò gli occhi su Giovanni, un vecchio artigiano, che gli era stato amico da sempre; poi, con voce flebilmente sommessa, gli disse: “O Ggiuà, cà pùa t’ ‘u mandu l’attu ‘i richjàmu” (o Giova’, stai sicuro che, poi, te lo manderò l’atto di richiamo!”). E detto questo, ricadde nel suo torpore. Nella stanza calò un silenzio di tomba; tutti rimasero allibiti.

Mastro Giovanni si rabbuiò in viso e rimase come di pietra. Aspettò che le acque si calmassero; successivamente, approfittando di un momento di disattenzione, si alzò pian piano dalla cassapanca su cui era seduto e, senza salutare alcuno dei presenti, guadagnò la porta d’uscita e scomparve nel buio della notte. Non si lasciò vedere né all’indomani e né nei giorni successivi. Intanto, per lo zio Peppe, la situazione precipitava di giorno in giorno sempre di più.

Nessuno si illudeva che egli potesse uscire indenne da quell’infermità. Infatti era trascorsa appena una settimana e, una mattina, alle prime luci dell’alba, si sparse la notizia che era passato a miglior vita. Lo stesso giorno fu celebrato in suo onore un solenne funerale, a cui parteciparono parenti, vicini, amici ed estimatori.

L’unico assente (ma da giustificare, senz’altro, e lo scoprirete avanti) fu mastro Giovanni, il quale fin da quella memorabile sera, si era buttato a letto in uno stato di tale prostrazione che non ce l’aveva fatta proprio ad alzarsi per fare il suo dovere con l’amico Peppe: anzi, occorre dire che da quel cantuccio non si alzò mai più, perché dopo aver lottato, per una decina di giorni, contro una malattia ribelle ad ogni cura, andò a raggiungere l’amico nel regno dell’al di là.

Quanti erano stati testimoni della promessa fattagli dallo zio Peppe, appresero la morte di mastro Giovanni con sgomento e, per parecchi giorni, essa fu l’oggetto costante dei loro discorsi.

Non vi nascondo che mi vengono i bordoni ogni qualvolta leggo questa cronistoria: pensate che la vicenda di Samara, al confronto, mi appare come una fiabetta, decisamente!

Prof. Francesco Polopoli

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