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Il dialetto lametino per imparare il latino

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latino

Credo che dal fascismo agli anni ’70 per tanti dei nostri dialetti è accaduto, né più e né meno, che una sorta di genocidio culturale, semplicemente perché, di fronte ad un codice standardizzato, da spalmare su tutti, come osserverà poi un grande sociolinguista come Gaetano Berruto, «ci si vergognava della propria lingua madre»

Ed intanto la televisione, con la buona pace di Mike Bongiorno, unificava il Paese con un idioma omogeneo, accessibile a tutti ma intriso di una algidissima correttezza formale che agli occhi di Pierpaolo Pasolini suonava come una spaventosa ingiunzione dall’alto.

Se penso allo spazio assunto dal nostro vernacolo dalla letteratura (Camilleri, Ferrante, Fois e tanti altri) alle esilaranti pagine Facebook, social conversazioni comprese, mi vien da dire che lo slang è un’Araba fenice.

Se in tutto questo, poi, ci aggiungo le canzoni di Fabrizio De Andrè, Pino Daniele, Gigi D’Alessio ed Edoardo Bennato me lo canto e me suono proprio bene, eh sì!

Il bello è, per tirare le somme, che non è soltanto una connotazione coloristica regionale, ma una diacronica rilettura del mondo: memoria contemporanea in avanti, già! Per quanto riguarda il mio la(me)tino, dulcis in fundo, è un gran bella eredità culturale: chi volesse studiare Roma antica, può frequentare di più i propri nonni.

Provare per crederci…

Prof. Francesco Polopoli

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