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E mo’ mo’….

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mo mo

Dante, per quanto avesse così disdegnato la parlata meridiana, bollandola nel De Vulgari eloquentia come «laida ed oscena loquela», riabilitò, tuttavia, la nostra terra nel nome di Gioacchino da Fiore (Par. XII, VV. 139-141: «e lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino, /di spirito profetico dotato»), senza buttarci a terra completamente, e per giunta in mezzo alla via ma, se mai, portandoci alle stelle, fino al Paradiso, se così si può dire!

Se oggi fosse redivivo, però, gli toccherebbe una bella penitenza, mi sa: chissà cosa penserebbe, infatti, di un suo mozzicone verbale, sopravvissuto solo ed esclusivamente nel Sud? «Chi sputa in cìalu, in faccia torna»: gli avrebbe detto uno dei nostri nonni, evitando di scomodare il suo Empireo in terze rime, che è tutto una Candida rosa! Torniamo a noi.

Premesso che mo ‹›, regionalizzato in ‹› (o mo’), derivi dall’avverbio latino mŏ(do), di cui rappresenta sostanzialmente una chiara ed evidentissima troncatura, mi va di dire, immediatamente, che è un piccolo monosillabo ad aver viaggiato abbastanza bene con la Macchina del tempo. Si ritrova persino nel Padre della nostra lingua italiana, il che fa commento da sé!

Nel senso stretto di «ora, adesso, o poco fa» si legge in più endecasillabi della Divina Commedia: «questi spirti che mo t’appariro», ad esempio; altrove preceduto da «pure»pur mo», «or ora, allora allora», come da noi, del resto, nell’espressione «puru mo’»  o «mo-ni») lo vediamo in un altro verso come questo:  «verdi come fogliette pur mo nate erano in veste (Dante). Oggi la parola è viva nel Centro-Meridione, rigorosamente con pronuncia chiusa ed anteposta: mo stai esagerando; mo che facciamo?; mo l’ho visto; mo vengo; ripetuto: mo mo, ora ora, subito, immediatamente; fam., da mo, da molto, da un bel pezzo: è da mo che glielo dico; «Sei già arrivato?», «Da mo!».

Unito a un imperativo, invece, e per lo più posposto, acquista valore interiettivo o esclamativo in frasi come: senti mo che pretese; guardate mo quel che mi succede!, e simili.

Insomma per una sillaba così corta composta da consonante più vocale abbiamo dato fiato ad una grande eredità: per chi ne afferma la forma bisillabica «moni», ci tengo a sottolineare, in barba a questa mia breve postilla, che si può cadere senza volerlo in errore, anche perché nella sua parte finale è riconoscibile quell’enclitica «-ne», tanto ricorrente nello stile ciceroniano e che, come è risaputo, non fa numero nella partizione dei termini del discorso.

E mo’ che dite, alla fin fine, che dopo tutto ciò vi ho tediato!? Che noia, che barba, che barba che noia, ricordando Casa Vianello….

Prof. Francesco Polopoli

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