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Ci lascia Francesco La Scala: noti, a Lamezia, i suoi studi archeo-linguistici

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francesco la scala

Lo studioso, un sambiasino Doc, come amava presentarsi, aveva da poco ultimato la stesura di un lavoro di recupero linguistico, accumulatosi in uno studio pluriannuale attento e paziente. Il testo è stato editato ma fisicamente è postumo a lui e a suo fratello Benito: in pochi mesi l’uno e l’altro se ne sono andati per sempre, lasciandoci increduli. Eppure Francesco s’era promesso di scendere per un incontro d’autore sul libro appena ultimato malgrado le difficoltà di salute, insorte negli ultimissimi mesi.

«Caro», mi scrivesti, «ho scoperto improvvisamente di avere un ospite che mi darà molto filo da torcere. Una neoformazione al polmone. Grande sorpresa per me. Accetto di buon grado la nuova compagnia. Combatteremo insieme. Sei il solo a saperlo. Sto lavorando sull’ermeneutica delle nostre strutture poetiche dimenticate o nascoste dal superficialismo. Presto ci vedremo per la presentazione del libro, compatibilmente con le cure. Un abbraccio».

Di lui si ricorda coralmente l’amore pervicace nei confronti del nostro territorio: diceva sempre di credere nella bellezza della nostra cultura e di lavorare per farla risplendere.

Ed è un testamento spirituale così elevato da non lasciare orfani chi lo ha stimato. Che dire poi del suo legame con Franco Costabile, di cui era fiero continuatore nel ceppo familiare come cugino di primo grado.

Per quanto apprezzasse la copiosa messe di studi sul poeta della Miraglia, nutriva una certa resistenza e diffidenza di fronte ad interpretazioni del tutto gratuite sul poeta ermetico di Sambiase.

«Ho la sensazione», diceva, «di trovarmi di fronte ad un decadimento manierista privo di speranze che si serve di un buon nome per portare avanti tematiche fiacche o plagi conditi di finta epicità». Mancherà la sua voce: era un magistero impeccabile, glielo riconosciamo tutti! E noti dolenti sono pure queste righe epigrafiche, incapaci di tessere un profilo che possa rispecchiare la caratura della sua persona: le radici della propria terra erano un tutt’uno con le radici delle parole che scavava con dovizia e pregio rarissimi, chi potrà dimenticarlo?

Per quanto mi riguarda lo voglio ricordare con un testo inedito, che mi ha inviato tra gli ultimi lavori di sua fattura dialettale (con nota di commento come facilitatore di comprensione, lo faceva sempre!):

A NINNA A LIGEA

Nissunu, Aricchji, ‘i cira Shi fhici pirinchjiri! A vuci tua, Cumu putìa ssintiri? Pirchì allura, alli scuagghji, Ti jisti a spracillari? Ppi shcuarnu fhorzi? Oppuramenti ha sintutu Persefhoni Chiamari, shutta U cipressu jancu, I nuavu ppi jucari? Alla shcuma d’a praja Ti shpuniru, I cavalluzzi ‘i mari, Chi ciangiandu Ti vòziru ragari. U viantu, i negghji Mbulicava avanti u shuli, Ppi cci zinnari: “Ashpetta, nun calari!” Ccu llu pìattu squartatu, Ancora tu riatavi, E l’ultima ninna A sta Chiana cantavi. L’undi d’u mari I labbra shi cushìru! E lli stilli tutti Sh’abbrazzaru Ppi un fari notti Prima ca murivi. L’acqua d’a gurna Cuminciau a scindìri, Carriandu ‘nsema Pannizzialli e juri, Ppi tti vasari E ppi tti quadijari. N’tuarnu tuttu ammutàu, Shintiandu i strazzi D’i shuspiri tua. Amara fhu lla morti E duci u cantu. L’armunia si spandìu Ppi ssupra all’undi E ssi ricoziru Varchi e marinari. Tu puru morta, na luna Parivi ammianz’arina, Cchjiu bella e viva Di cum’eri prima. Ogni carizza dilica, Pirofhati ‘ntr’o cori, Ccu jummura di chjianti T’eppiru ‘i cruvicari. Ancora nua cantamu Stu duluri, Fhaciandu u pizzu a rishu Ppi llu sbìari, Cumu i quatrarialli Chi perdinu la minna, Girandu l’uacchji, Ppi rrìdari alla mamma. Veni llu juarnu Chi fhurni sta cundanna E simu nua Chi ti cantamu a ninna. 

Nota: “Nissunu” è ovviamente Ulisse che umiliò le Sirene evitando furbamente il loro canto. Ligea, come le altre sorelle, ne morì. Ligea, Leucosia e Partenopee erano amiche di Persefone, figlia della dea Demetra, e giocavano felici con lei quando il dio Ade la rapì portandola con sé nel regno dei morti. Poiché Demetra le ritenne responsabili di non aver soccorso la figlia Persefone in quella circostanza, le trasformò, per punizione, in sirene (metà donne e metà uccelli). Il richiamo a Persefone e al cipresso bianco si riferisce ai testi delle laminette orfiche. I pannizzialli sono gli elicrisi, fiori tipici del fiume Bagni.

Con questa ninna ora si lascia accompagnare da Roma fino a Lamezia: rientra l’aedo mentre la terra si fa lieve a porgergli l’ultimo amorevole saluto.

Prof. Francesco Polopoli

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