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Gigliotti (Italia Nostra): che si aspetta a mandare a casa Cotticelli e Belcastro?

5 min di lettura

Il nostro è un Paese di memoria molto scarsa

Comunicato Stampa

A tal proposito sulla questione dei tamponi conservati in frigorifero a Frascineto e sui macchinari disponibili presso l’ospedale di Lamezia Terme in grado di effettuare 100 tamponi al giorno e di avere l’esito del tampone dopo circa un’ora ci viene da chiedere: ma di chi è la responsabilità di tutto ciò?

Dal momento che i deputati 5 stelle pare che ora abbiano scoperto l’acqua calda ci viene da chiedere ma chi ha nominato il generale Cotticelli come commissario alla sanità calabrese?

Ci chiediamo perché lo stesso non ha pensato di far fare un monitoraggio di tutte le strumentazioni disponibili in tutti gli ospedali in grado di far fronte all’emergenza covid-19?

Cosa si sta aspettando a mandare a casa il generale Cotticelli? Che si aspetta a mandare a casa il dirigente Belcastro e gli altri dirigenti che non riescono non solo a mettere in funzione la strumentazione disponibile, che inviano i tamponi in altre regioni con costi sempre addebitati alla collettività e nello stesso tempo noi paghiamo il noleggio delle stesse strumentazioni che rimangono inutilizzate.

Ci chiediamo ci sono o non ci sono i termini perché intervenga la magistratura? Ci sono o non ci sono le condizioni perché intervenga Gratteri a fare chiarezza dal momento che la politica fa fatica a venirne fuori?

Un’altra riflessione la facciamo sulla concessione del reddito di cittadinanza senza richiesta reale e vera di nessuna contropartita.

È giusto ben inteso che a tutti sia garantito il diritto alla sopravvivenza ma troviamo altrettanto giusto che a fronte del reddito percepito ognuno offra il proprio sapere sotto forma di lavoro. Ci volevano grandi menti per stabilire ciò?

L’Italia «è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», ma a volte se ne dimentica. Così come «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», ma a volte preferisce non guardare i luoghi e le circostanze in cui si violano.

Le misure di regolarizzazione possono non essere eleganti, ma rivelarsi necessarie per tutelare valori più alti, come quelli espressi nei primi due articoli della Costituzione.

Nel caso della regolarizzazione degli stranieri residenti in tempi di Covid-19 e dell’emersione dal lavoro nero, sono in gioco
altresì vitali interessi del nostro Paese: quelli della tutela sanitaria anzitutto, giacché la presenza sul territorio, nei campi e in altri luoghi di lavoro di persone non registrate né monitorate aumenta il rischio epidemico, per loro, per chi li aiuta, ma anche per tutta la popolazione; e accresce le difficoltà di settori economici rimasti a corto di manodopera, come quello agricolo.

Qui  però la politica esige il suo dazio. E non parliamo della politica alta e capace di guardare lontano, ma di quella delle convenienze di breve periodo e della ricerca del consenso facile, a (presunto) basso costo.

Spuntano argomenti demagogici, per esempio l’idea di ricorrere ai percettori del reddito di cittadinanza: come se due anni fa molti di loro non fossero già disoccupati, eppure indisponibili a ‘faticare’ nei campi del sud e del nord.

Come se molti non fossero istruiti, o madri di famiglia, o residenti in luoghi lontani dalle campagne. O non avessero il diritto di cercare e scegliere un lavoro più vicino a competenze e aspirazioni.

Oppure si specula sulla scarsa memoria degli italiani, come se gli attuali oppositori ‘senza se e senza ma’ delle sanatorie potessero esibire un curriculum immacolato: nel 2002 Bossi insieme a Fini firmò una sanatoria che legalizzò oltre 630.000 persone; nel 2009 Maroni, a crisi economica già iniziata, ne promosse un’altra da 300.000 beneficiari.

Le polemiche di oggi fanno rimpiangere quel centrodestra pragmatico, capace di salutari incoerenze tra gli slogan gridati nei comizi e le politiche praticate nei luoghi decisionali.

Oppure ancora si cerca di spaventare gli italiani con i numeri: 600.000 candidati alla sanatoria. Il sottinteso è che il loro profilo corrisponda a quello di giovani africani e ovviamente musulmani che tanto hanno inquietato segmenti di opinione pubblica.

Quanti siano esattamente o anche approssimativamente gli immigrati senza validi titoli di soggiorno è per definizione un dato sconosciuto. Forse però si potrebbe ricordare che nelle ultime tre sanatorie la maggioranza degli emersi erano donne, per lo più europee, che lavoravano al servizio di famiglie italiane.

In secondo luogo, l’Istat stima in poco più di 50.000 le persone senza dimora. I servizi per i più poveri, come le mense e gli empori solidali, segnalano un incremento di accessi, ma per lo più di italiani.

Ci si dovrebbe chiedere: dove si nascondono tutti questi cosiddetti ‘clandestini’? Come si procurano di che vivere, essendo bloccata anche gran parte dell’economia sommersa?

Il rischio in realtà è che sotto la copertura di una certa idea di legalità o di una pretesa solidarietà con gli italiani poveri si intenda in realtà continuare a tollerare le pratiche ben note di un certo mondo del lavoro (agricolo, ma non solo) e di una certa gestione dei servizi alle famiglie (dove magari la necessità può rappresentare un’attenuante): ricorso libero e impunito al lavoro nero, con l’aggravante nel primo caso del caporalato; sfruttamento ancora più spietato, in mancanza dei presupposti minimi per opporsi; illegalità tollerata  e travestita da consuetudine.

C’è da credere che le agromafie tifino contro l’emersione, e non il contrario. L’alternativa sembra essere un compromesso
minimalistico, con una regolarizzazione concessa soltanto a chi riesce a trovare un datore di lavoro disponibile; ristretta ad agricoltura e servizi domestici, come se in altri settori del mercato del lavoro ora in ripartenza non si impiegassero immigrati in condizione irregolare, dai cantieri edili alle pulizie, dai recapiti e dai trasporti ai pubblici esercizi; limitata nel tempo, a tre mesi, con il rischio di ritrovarsi a metà agosto di nuovo consegnati all’alternativa tra sfruttamento e mendicità.

Ci sono momenti in cui la politica ha la possibilità di abbinare valori alti e realistica attenzione agli interessi del Paese. Ora si trova in uno di questi frangenti, ma anche la combinazione di valori e interessi per riuscire ha bisogno di un terzo ingrediente, che si chiama coraggio Serve coraggio per porre al primo posto gli interessi collettivi e non sempre siamo riusciti a cogliere ciò.

Coraggio per nominare ministri in grado di sapere quello che dicono e di non doversi smentire in continuazione. Coraggio per fare meno parole e più fatti per famiglie imprese partite iva mondo del lavoro.

Occorre il coraggio della libertà.

Giuseppe Gigliotti
Italia Nostra Lamezia Terme

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