LameziaTerme.it

Il giornale della tua città



Il berretto a sonagli o della follia liberatrice

5 min di lettura

berretto a sonagliLamezia Terme, 9 novembre 2017, Teatro Comunale Grandinetti. In scena, per l’apertura della Stagione di Teatro organizzata da AMA Calabria con il patrocinio della Citta di Lamezia Terme, Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello, con Sebastiano Lo Monaco, che ne firma anche la regia, Maria Rosaria Carli, Gianna Giachetti, Barbara Gallo, Lina Bernardi, Rosario Petix, Claudio Mazzenga, Maria Laura Caselli.

Un doveroso omaggio per i 150 anni della nascita del grande drammaturgo girgentino.

Sullo sfondo di una Sicilia senza tempo dove abitudini ormai codificate governano la vita pubblica, la vita privata e l’onore si consuma una sottile vendetta. È il sordido mondo della piccola provincia con il suo conformistico bisogno di salvare le convenienze nascondendo, sotto la rispettabilità dell’ordine e della forma, il fermentare di passioni torbide e di istinti segreti.  Un gioco di inganni dove il ridicolo fornisce il pretesto alla sentenza: la follia liberatrice, fonte di verità.

Il rigoroso e imponente décor firmato da Keiko Shiraishi mette in relazione l’esterno/interno con una vetrata in boiserie che lascia trasparire un rigoglioso quanto realistico giardino mentre i mobili del salone, pochi ma solenni e sapientemente disposti, ben si armonizzano con le linee verticali che dominano lo spazio scenico. Il tappeto sonoro di Mario Incudine e i calibrati tagli di luce di Nevio Cavina fanno da costante contrappunto ai ritmi della recitazione. Belli e curati i costumi di Cristina da Rold. La regia di Lo Monaco è dinamica e vivace con un allestimento dal quale lo stile dell’autore risalta per magistrale controllo strutturale e limpidezza di linguaggio nonostante le continue invenzioni foniche che il regista/protagonista si diletta a inserire nel plot. Infatti, il registro comico, con diverse incursioni nella bouffonerie tragique, è qui largamente privilegiato rispetto a quello drammatico per meglio discernere l’essere dalla sua maschera o meglio dal suo “pupo”.

Il Ciampa di Sebastiano Lo Monaco appare dal fondo come se sbucasse in palcoscenico da una parete buia, da quell’altro spazio invisibile che sta dietro la scena e si commisura con  essa con godimento.
Si presenta ascetico e indifeso, quasi rigido su quel busto agito come una marionetta. Voce dimessa ma caparbia che fa presagire fatalità impenetrabili. E in quel I atto, avvolto nella luce bianca della razionalità riverberata dal bianco velario dipinto a mo’ di fondale, Lo Monaco, con una tenuta interpretativa scolpita nella pietra lavica, costruisce il suo Ciampa immergendosi nella sua natura raziocinante, dialettica, discettante e illustrando la teoria delle “tre corde”: quella civile, quella seria e quella pazza.
Ma è nel II atto che si compie l’iperbole. Nel chiuso di quel salotto borghese dove Ciampa/Lo Monaco entra, cappello in mano, con una aurea di ineluttabilità infantile e rassegnata, estatica quasi.
Scarmigliato, con una vistosa ferita sulla fronte, il volto tirato e il trucco marcato a scavare dalle linee del suo volto solchi profondi di violenze inaudite, costretto a vivere nella dimensione mortificata della sua vita intima, vilipeso nell’amore e nell’onore ed esposto ormai al pubblico ludibrio.
Ma con una virata improvvisa, come un clown nero, folle e razionale insieme, comincia a muoversi con destrezza negli spazi che il personaggio gli offre e riesce a ottenere un riconoscimento pubblico di onorabilità tutelando agli occhi della gente il suo “pupo”. Egli fa in modo che venga rispettato, anche quando, di nascosto da tutti lo si vorrebbe umiliare o sbeffeggiare “[…] Via, vada! vada! si prenda questo piacere, di fare per tre mesi la pazza per davvero! Le par cosa da nulla? Fare il pazzo!
Potessi farlo io, come piacerebbe a me! Sferrare, signora, qua, per davvero tutta la corda pazza, cacciarmi fino agli orecchi il berretto a sonagli della pazzia e scendere in piazza a sputare in faccia alla gente la verità.[…]”

Ferita e furente, fiera e folle la Beatrice di Maria Rosaria Carli giganteggia sulla scena. Entra con recitazione nervosa covante, in appartata cupezza, il finale gesto esplosivo.
Un ritratto di signora a cui si addice il disegno borghese dell’inizio che poi, lentamene, svanisce trasformandosi in algida baldanza all’inizio del II atto fino al delirio finale quasi carponi a terra mentre si dimena come una tigre prigioniera.
La Carli preme il pedale della consapevolezza fino alla lucida determinazione di un impossibile riscatto/vendetta che si tramuta in quel belato reiterato e si sente la sua voce fredda, tagliente, gelidamente pazza d’un tono tuttavia stranamente naturale. Da lucida carnefice a fragile vittima si consegna sopraffatta alla vis diabolica di Ciampa, diventato ormai grande burattinaio. Interpretazione inquieta, forte, sicura. Una Beatrice memorabile.
Deliziosamente cattiva la Donna Assunta di Gianna Giachetti con le sue smorfie e la vocina leziosa.
Più matrigna che madre, si ritaglia con talento e mestiere il suo spazio e troneggia come una regina lillipuziana accentuando con misurata ironia l’elemento grottesco ed esibizionistico e offrendo una figura materna diametralmente opposta all’introverso, corrosivo intimismo della “madre” descritta dall’autore.

Maliziosa e insinuante la Saracena di Barbara Gallo avvolta in quel lungo scialle con le frange che usa come oggetto di seduzione con toni e movimenti persuasivi.
La sola, tra l’altro, a mantenere con le sue battute colorite il legame linguistico con la terra d’origine introducendo, in un contesto borghese, la radice identitaria attraverso l’elemento popolare della lingua parlata.
Lina Bernardi/Fana è presenza silenziosa e discreta, gravata di titubanze che però lasciano trasparire l’affetto profondo e sincero che la lega a Beatrice.

Svagato e libertino il Fifì di Claudio Mazzenga sospeso tra coloritura e ironia, eleganza e civetteria, candore e idiozia.
Rosario Petix è un Delegato Spanò di molta verve con corposi spunti di abilissimo caratterista e sfumature mimiche quasi marionettistiche.

Immobile, granitica, obbediente e sottomessa Nina, moglie di Ciampa, nel cameo di Mara Laura Caselli.

Nel finale l’illuminazione si indebolisce e si frantuma in una successione alternata di chiaroscuri. La coralità della presenza scenica dei personaggi si dirada, le voci perdono il loro tono di concitazione caotica e la conclusione è affidata a Ciampa che “si butta a sedere su una seggiola in mezzo alla scena, scoppiando in un’orribile risata, di rabbia, di selvaggio piacere e di disperazione a un tempo.”


Risata tragica che ne disvela la grandezza. È vero che anche lui è un pupo ma il filo che lo muove è quello dell’amore. Uomo ridotto a pupo e dunque profondamente pietoso perché al deserto affettivo sceglie il tradimento di colei che ama in delicatissimo equilibrio tra la segreta sofferenza e il desiderio di rivolta contro la maldicenza della gente che fanno di lui un “martire della forma”.

Grandi tutti. Lunghissima ovazione.

Giovanna Villella

[fotto di scena Ennio Stranieri]

Click to Hide Advanced Floating Content

Diabolik

Diabolik