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«Jètta ffùacu d’᾿i naschi!»

2 min di lettura
Jètta ffùacu d’᾿i naschi!

«Butta fuoco dalle narici!»: un dragone o una dragonessa, praticamente!

Come modo vernacolare si dice di un tipo pieno di vita e troppo esuberante, che si faccia notare per il suo non comune dinamismo.  Non solo.

Il comportamento può conoscere sconfinamenti, perché da qui a «cci puzza la nasca!» il passo è breve, senza dover esplicitare il senso di questa locuzione che, in sé per sé, pare facilmente comprensibile a tutti.

Va sottolineato, al riguardo, che l’identificazione del naso con la superbia ci proviene dagli Arabi, per i quali questa parte anatomica del viso è, appunto, la sede della superbia. Insomma, l’atteggiamento in entrata è quello di un individuo borioso e aduso a guardare gli altri dall’alto in basso: con la puzzetta, diciamo, vero!? Il suo utilizzo paremiologico affonda le radici nella mitologia: il drago è un personaggio frequente nelle storie agiografiche, ad esempio!

La lista dei santi sauroctoni – cioè uccisori di draghi – è infatti molto lunga: Teodoro, Silvestro, Margherita e Marta (che però si limitò ad ammansire il mostro) sono solo i più famosi.

A questi si aggiunge l’arcangelo Michele, alla guida della battaglia contro la bestia apocalittica e, non ultimo, San Giorgio, scelto come patrono dall’Inghilterra e dal Portogallo.

Per i classicisti sottolineo, invece, i draghi alati del carro di Medea, designati variamente come dracones, angues, serpentes e che, tra l’altro, compaiono più volte, in corrispondenza di momenti significativi della sua vicenda mitica.

Dopo la conquista del vello d’oro e il ritorno in Grecia, a Iolco in Tessaglia, su richiesta di Giasone, che è diventato suo marito, la nostra maga d’oriente tenta di ringiovanire il vecchio Esone, facendo raccolta di parecchie erbette atte alla preparazione di una bella pozione:

«neque enim micuerunt sidera frustra,

nec frustra volucrum tractus cervice draconum

currus adest.’ Aderat demissus ab aethere currus.

Quo simul adscendit frenataque colla draconum

permulsit manibusque leves agitavit habenas,

sublimis rapitur subiectaque Thessala Tempe

despicit et certis regionibus adplicat angues».

(Ovidio, Metamorfosi VII, v. 217 sg.)

Traduzione

 «Non hanno brillato invano gli astri,

non m’attende invano un cocchio aggiogato a draghi alati!».

E un cocchio sceso dal cielo era lì ad aspettarla.

Appena lei vi salì ed ebbe accarezzato il collo imbrigliato

di quei draghi e con le mani n’ebbe scosso le redini leggere,

fu trasportata in cielo e, scorta sotto di sé la tessala Tempe

fece calare i serpenti sui luoghi che aveva fissato».

Salvo il vero, in barba a tutto questo, mi sa che oltre alla faccetta da strega, tante nostre «nascute» hanno assunto pure i toni delle Arpie o delle Megere. Non da sole, perché in tutto questo brillano con non pochi uomini, meglio sottolinearlo!

Lasciamoli cuocere nel loro brodo di giuggiole, magari, a suon di qualche lingua impreziosita: “se donner des grands airs”, ricordando, nel contempo, che è facile perdere la testa sul piedistallo di una Rivoluzione francese di turno: fuor di metafora, e concludo, non si è fortemente antipatici, poi mi chiedo!?

Prof. Francesco Polopoli

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