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Lamezia. Lettera aperta della figlia di Franco Muraca ad un anno dalla scomparsa

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Ad un anno dalla tragica scomparsa di Franco Muraca, operaio di 56 anni morto sul lavoro, sua figlia Giada, decide di rendere pubblica una lettera che, come dichiara “ha scritto, sperando che possa scuotere le coscienze. E far aprire gli occhi sulla triste ed amara realtà in cui viviamo, dove ancora si muore sui posti di lavoro per mancata sicurezza e totale negligenza di chi dovrebbe tutelare un operaio, ma non l’ha mai fatto”.

Di seguito la lettera:

Penso che, ogni uomo in questo mondo, conservi in sè un dono prezioso. Quel dono accomuna indistintamente tutti noi, a prescindere da ogni merito. 

Quel dono si chiama VITA. 

Tralasciando la religione per un fattore soggettivo, ora mi riferisco a chi, ogni giorno, riesce a lodare la propria esistenza, e rendere quindi la propria vita degna di essere vissuta. A chi ha imparato a conoscerla fino in fondo in ogni sfumatura, dalla più chiara fino a talvolta la più oscura… Quella persona é il LAVORATORE. Colui che combatte insieme e/o contro al destino, per dare un senso ad ogni suo giorno. “L ITALIA È UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA FONDATA SUL LAVORO”. È scritto. 

Oggi nel 2019, in molti sarebbero propensi a convertire questa frase in altro modo: l Italia dovrebbe essere una repubblica democratica fondata sul rispetto di chi loda la vita, onora il paese in cui vive, lavorando onestamente, lavorando per potersi tutelare, per poter vivere o, molto spesso, sopravvivere. È la mia rabbia a scrivere in prima persona ogni parola di questa lettera. È la mia impotenza di fronte all’ennesima “morte bianca” (bianca , perché la mano di un colpevole resta sempre celata agli occhi di tutti) che è toccata al mio papá: Franco Muraca, di soli 56 anni. Figlio della città in abbiamo sempre vissuto, Lamezia Terme (Sambiase). Di un paese che l’ha visto nascere, crescere, lavorare e morire prematuramente nella tragedia più atroce. Figlio di una nazione che ha servito durante la leva obbligatoria che fece con onore, congedandosi da caporale maggiore, ma che non l’ha tutelato nella sua vita da lavoratore. E soprattutto non gli ha concesso un degno riconoscimento, soprattutto nella morte. 

Attualmente la politica italiana è soltanto un vociare. Un vociare senza senso. Senza logica, nè ragione. 

Perchè mai nessun orecchio si è proteso ad ascoltare veramente ciò che è impossibile da non sentire: il tonfo di quell’uomo sull’asfalto. Le urla di dolore. Lo strazio senza fine. I passi di corsa negli ospedali. Il suono delle campane. Il sussurro di un nome in una preghiera. 

La richiesta di aiuto, e di giustizia. 

Solo nello scorso anno, più di 1450 italiani di sono spenti nell’indifferenza di uno stato che li ha condannati già dal primo giorno in cui hanno iniziato a lavorare. 

E che, ancora oggi, infanga la loro memoria, con la totale indifferenza dei politici, con la negligenza di chi ha delle determinate responsabilità, e con la totale mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro. 

Potrei scrivere, descrivere dettagliatamente, quanto tutta questa “dimenticanza” da parte dello stato, nei confronti di un semplice lavoratore, possa influire su tutta la sua intera esistenza. Ma per raccontarvi la vita in prima persona, servirebbe mio padre, che purtroppo, proprio per via del suo lavoro, oggi non potrà essere cui a tenere questa penna in mano al posto mio. Io sono solo una figlia che ha visto e toccato con mano il peso di una quotidianità dedita al sacrificio, alla continua delusione, talvolta all insoddisfazione, tutto ciò che la nostra realtà, ha regalato gratuitamente a mio padre e a tutti quelli come lui …

Penso ad una frazione di tempo: quella tra l’impatto e l’urto; quel momento in cui stai perdendo chi ami proprio nel posto in cui si trova per lavorare … ecco. Mi riferisco a quella frazione di secondo dove, colui che è destinato, si trova di fronte all’atto compiuto. Si trova difronte alla morte. Ed ogni pensiero, la paura, il sentimento, viene celato tutt ora a noi che però, vivremo per tutta la nostra vita, in quella frazione di secondo … 

È difficile da spiegare, come si possa continuare a vivere con questa sete di giustizia addosso. È lei stessa ad esprimersi per me, perché aldilà dei sentimentalismi e di tutti i fatti che la gente tende ad archiviare, a dimenticare, ogni parola che state leggendo è mirata. Rivolta a chi davvero può cambiare un sistema balordo come questo. 

Ma che non lo fa. 

Quei “qualcuno” che oggi, più di ieri, devono portare sulle proprie spalle la responsabilità per la perdita di un padre, di un marito, di un nonno, di un uomo. Sottratto a più di 1450 famiglie. 

Sottratto alla vita, ingiustamente!! 

Ora penso che neanche se li avessi difronte riuscirei a farmi ascoltare: perché non hanno orecchie per sentire. Né un cuore per poter comprendere. 

Un anno fa (4 luglio 2018) mi preparavo per recarmi al lavoro in una giornata afosa di luglio, quando mi informarono che mio padre era in ospedale per un incidente subito a lavoro. Passó un ora prima che potessi rendermi conto, alla vista, che quell’uomo con la testa fasciata, imbracato su una barella, intubato, era proprio il mio papà. Alla vista riconobbi subito la sua pelle scura, abbronzata dalle giornate passate sui ponteggi a lavorare anche nei mesi più caldi; ora era ricoperta di calce e sangue. Fu quello il momento in cui mi sono sentita crollare addosso il peso del mondo intero. Ancora oggi non so come sia possibile passare dalle allegre colazioni insieme, dal prendere il caffè e ridere, dalla nostra quotidianità, ad una tragedia simile, ad un addio che abbiamo dovuto dirci per forza. 

Il 6 luglio 2018 il mio giovane papà, ha smesso di lottare contro le ferite gravi che la caduta gli ha provocato. Mio padre ha smesso di lottare in maniera terrena per uno stato con non gli ha mai teso la mano. Forse contro un destino che è già scritto per chi lavora e non si risparmia come ha fatto lui. 

Egoisticamente ho pregato Dio di salvarlo per me. 

Oggi prego che sia lui a di darmi un po’ della sua forza affinché sia fatta giustizia. Perché le cose finalmente inizino a cambiare in questo paese. Per tutte quelle figlie che non verranno accompagnate all’altare dal loro papà. Che non sentiranno i loro figli chiamare “nonno” ad alta voce. Per tutti i familiari che si ritrovano ogni notte a parlare con una foto in una cornice.

Per le mamme, le mogli e le figlie che accendono un cero e vivono con la testa rivolta sempre al cielo. 

Caro papà, sei stato un grande esempio per tutti nonché per noi figlie. Hai saputo insegnare tanto anche nella morte: lottare sempre, nonostante tutto, fino alla fine. Se non più in questo mondo, forse in un altro ci ritroveremo. Perché tutto muore qui, ma l’amore no.”

Giada Muraca

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