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Lamezia Summertime. Il regista Ciro D’Emilio ospite a “Cinema e Cinema”

4 min di lettura
Ciro D'Emilio

Lamezia Terme, 1 febbraio 2019. Ciro D’Emilio, giovane regista e sceneggiatore italiano  è stato ospite di Cinema e Cinema, la rassegna di film d’autore giunta alla sua XVII edizione. Organizzata da Arci Lamezia Terme/Vibo Valentia con la direzione artistica di Ivan Falvo D’Urso, la rassegna è inserita nell’ambito del progetto Lamezia Summertime con validità triennale e finanziato dalla Regione Calabria con fondi PAC 2017-2020.

In cartellone, per questa XVII edizione, anche il film Un giorno all’improvviso opera prima di Ciro D’Emilio con protagonisti Anna Foglietta e Giampiero De Concilio. Presentato a Venezia 75, selezione Orizzonti, l’esordio di D’Emilio ha fruttato un Premio Nuovo Imaie per De Concilio e un Premio Fice come Miglior attrice dell’anno per la Foglietta. In Italia il film è distribuito dalla No.Mad Entertainment.

Quattro anni e mezzo per la stesura della sceneggiatura, scritta da Ciro D’Emilio e Cosimo Calamini, più volte rimaneggiata durante le riprese. Solo 2 mesi e mezzo per il casting. Quattro settimane di riprese, 115 scene in 24 giorni. Titolo e finale del film cambiati in corsa. È stato il coro del Napoli – di cui il regista è tifoso – a dargli l’illuminazione per il titolo definitivo e anche per il finale ha dovuto attingere alla propria esperienza personale rivivendo e rielaborando il dolore per la perdita di suo nonno. Ciro D’Emilio si chiamava, come lui. La città quel giorno era vestita col suo nome, ed era ancora caldo mentre reggeva sulle gambe l’urna con dentro le sue ceneri.

Tutto questo è quel piccolo grande capolavoro che è Un giorno all’improvviso. Storia di una madre e di un figlio. Miriam e Antonio. Storia di un rapporto d’amore disfunzionale tra una madre/figlia e un figlio/roccia.

Miriam, interpretata da una immensa Anna Foglietta, è una giovane donna che mostra ampie zone di fragilità che si sublimano in follia e in tenerezza. Una donna che ama troppo, per dirla con Robin Norwood. Completamente assorbita/annullata da un amore totalizzante per un uomo (un granitico Fabio De Caro) che non la ricambia, assume sempre più cadenze da eroina tragica e diviene una moderna Medea in quell’ultima scena sulla statale, con quella cassetta di frutta e ortaggi tra le braccia tenuta come un infante e quelle parole, definitive, lanciate al figlio come strali. Si può uccidere in tanti modi…
Questa moderna tragedia dell’amore che distrugge vive nello sguardo angosciato e doloroso di Miriam e nel suo viso che, in crescendo, esprime sempre più il senso di essere braccata dall’interno.  Il suo andarsene dal mondo che l’ha vista errante (nella doppia accezione dell’errore e dell’errare) è il prezzo della Libertà, sua e di Antonio.

Antonio, 17 anni e non sentirli perché non ha mai vissuto la sua età. In questo rapporto viscerale con la madre, lui, giovane promessa del calcio, ha subito un processo di adultizzazione precoce, mantenendo solo in qualche occasione, una sacca di adolescenza. La vita lo ha costretto a crescere troppo in fretta  e a diventare per la madre la roccia su cui poggiarsi. È lui che si prende cura di lei, le prepara le medicine, la spremuta di limone, la cena… E se è vero che in ogni uomo c’è un Edipo, anche lui odia il padre e ama la madre. La tenuta interpretativa di Giampiero De Concilio è magistrale per un ragazzo di 18 anni che deve dimostrarne 17 e riuscire a trovare dentro di sé i registri giusti per ogni scena: il dolore per le ferite che si porta dentro, il desiderio di andare via, la nostalgia per una vita che non c’è, la controllata euforia per la vita che potrebbe esserci, il dolore compresso quando arriva a casa e che si traduce in quel gesto di rabbia contro il bicchiere di limonata che assume un significato altro (svezzamento/rottura del cordone ombelicale).

Intorno a questa coppia monolitica, gravitano altri personaggi. I compagni della squadra di calcio di Antonio con i quali egli intrattiene un rapporto amicale e, a tratti,  goliardico tra velate speranze e dure espressioni di disagio giovanile, con egual dose di crudezza e sentimento (che non è sentimentalismo), di lingua napoletana in purezza e poeticità. Ci sono le ragazzine smaliziate che girano in scooter, c’è una intelligente parodia del camorrista lontana dai cliché stereotipati, c’è Astarita (un bravissimo Massimo De Matteo), scopritore di talenti calcistici che nella scena finale, smette la maschera da manager e acquista uno spessore umano da padre putativo.

Sullo sfondo un paese di provincia, una periferia degradata che potrebbe trovarsi in qualsiasi latitudine di ogni Sud del mondo costantemente coperta da un cielo di polvere che contrasta cromaticamente con il verde ubertoso di quell’orto carico di limoni dove madre e figlio condividono sudore e sorrisi,  sorrisi grandi, aperti, veri e l’ordine geometrico, asettico, ospedaliero del Nord (l’albergo, lo spogliatoio, il campo di calcio). Nella scena finale un lungo piano sequenza che vede il protagonista di spalle (dopo aver visto tutto attraverso i suoi occhi), di notte, tra le luci sfocate e colorate del traffico, mentre va per la sua strada. Finale aperto.

Una storia con una intensità e uno struggimento emotivo che colpiscono, affascinano, commuovono. Un film che per ispirazione e maestria riporta al cinema d’autore capace di raccontare per sintesi e illuminazioni, per immagini d’alta densità e significanza, capaci di rivelare l’essenza della vita in un attimo.

Un film che ti resta dentro. Da vedere e rivedere.

Giovanna Villella

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