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Lo Smart Working in Italia: le prospettive per il futuro

3 min di lettura

La realtà lavorativa italiana è cambiata, in maniera forse decisiva, a partire dal febbraio dello scorso anno

Con l’approvazione del decreto legge del giorno 23, si dava la possibilità alle aziende di ricorrere in modo automatico allo smart working, o “lavoro agile”.

A circa un anno di distanza da quella data storica possiamo iniziare ad analizzare i numeri e gli impatti di quella scelta sulla vita delle persone e possiamo provare a fare alcune ipotesi per il prossimo futuro, sia per quanto riguarda il settore pubblico che per quello privato.

Fino allo scorso anno il lavoro da remoto era molto difficile da trovare in Italia e concentrato nelle realtà più importanti o nelle multinazionali. I lavoratori potevano richiederlo all’azienda e il rapporto era regolato da un accordo individuale basato sulla Legge 81 del 2017. Ma si trattava di casi isolati e situazioni eccezionali legate a problemi di salute o mobilità. Oggi, invece è la norma.

Secondo un recente studio pubblicato da Microsoft, le imprese nazionali che hanno adottato lo smart working sono passate dal 15% del 2019 al 77% del 2020. Dati e statistiche simili a quelle elencate da ISTAT lo scorso giugno: il 90 per cento delle aziende italiane con più di 250 dipendenti ha implementato il lavoro a distanza. Una percentuale che scende al 73% per quelle di dimensione media, al 37% per quelle piccole (massimo 50 addetti) e al 18% per le microimprese con meno di dieci lavoratori. Per dare qualche ulteriore numero: a febbraio del 2019 le persone che lavoravano da casa erano poco più dell’1% del totale. Un anno dopo sono diventate il 10%.

Ma come insegnano i professionisti del poker online e gli esperti di formazione a distanza, per rendere al massimo nello smart working è fondamentale creare l’ambiente giusto. Un ambiente fatto di stimoli rilassanti, ben organizzato, pulito e, se possibile, lontano dalle stanze in cui si svolgono le altre attività quotidiane riduce lo stress e migliora il benessere psico-fisico.

E una volta creato i benefici diventano evidenti. Basti pensare che uno studio dell’Osservatorio del Lavoro Agile del Politecnico di Milano appena pubblicato ha sottolineato che con questa nuova modalità di lavoro la produttività individuale è aumentata del 15%. Garantire ai lavoratori autonomia e possibilità di gestione del proprio tempo, inoltre, li porta a una maggiore fidelizzazione verso l’azienda e a una maggiore responsabilizzazione.

Come dicevamo in precedenza, è già tempo di pensare al futuro. Le prime stime di settore sottolineano come entro la fine del 2021 saranno oltre 5 milioni gli addetti che lavoreranno in smart working. Due milioni di essi saranno dipendenti delle aziende più grandi. Gli altri saranno distribuiti equamente tra gli altri tipi di realtà economica. Aumenteranno anche le giornate di lavoro da remoto che potrebbero passare dalla media attuale di un giorno a settimana a 2,7 giorni.

A essere soddisfatti dello smart working sono gli stessi lavoratori. La ricerca di Microsoft citata in precedenza ha analizzato anche le loro opinioni e sono emerse indicazioni interessanti. Circa il 66% del campione intervistato sottolinea come gradirebbe proseguire anche in futuro col lavoro a distanza. Molte e variegate le motivazioni addotte. C’è chi pone l’attenzione sul notevole risparmio economico (meno soldi spesi per pranzare fuori, per le trasferte o per la benzina), su quello “temporale” (meno tempo passato in macchina o sui mezzi pubblici), sull’autonomia (lavorare da casa permette di organizzare meglio le giornate e ritagliarsi importanti momenti per hobby e passioni) e sull’importanza di aver recuperato del tempo da passare in famiglia.

Una situazione, quella attuale, che sembra essere appagante sia per le imprese che per chi lavora. Ma serve in tempi brevi una regolamentazione legislativa dello smart working. Fin qui ci si è mossi con accordi individuali e incentivi statali. Nei prossimi mesi sarà necessario fornire delle linee guida chiare per regolare i rapporti tra datori di lavoro e dipendenti e per evitare potenziali disparità di trattamento o remunerazioni non adeguate.

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