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PASSENGERS, di Morten Tyldum

2 min di lettura

La nave stellare Avalon sta compiendo la più grande migrazione di massa della storia: dalla Terra verso una colonia lontana 200 anni luce, 5000 persone viaggiano in animazione sospesa per raggiungere un nuovo mondo dove vivere.

PASSENGERSUn’insolita anomalia di sistema però  fa svegliare, con 90 anni di anticipo, un meccanico. Così Jim (Chris Pratt) si sveglia, con davanti a lui 90 anni di solitudine. Il film di Morten Tyldum riecheggia le atmosfere di Gravity e di Wall-E, strizza l’occhio a Shining e fa pace con una fantascienza romantica persa nel mare dell’esistenzialismo: perché insospettabilmente Passengers è un ‘romance’ che utilizza le coordinate sci-fi solo come fondale, per raccontare una delle storie d’amore più classiche e convenzionali (lui e lei si innamorano finché lei non scopre che l’innamoramento nasce da un artificio), che però parte da un assunto che utilizza -purtroppo, male- un dilemma morale non da poco: quando si sta male, fino a che punto è lecito trascinare qualcuno con sé?
Passengers allora naviga a vista, declinando come da copione la più classica situazione da spazio profondo: ma paradossalmente è proprio quando ritorna sui classici binari da fantascienza che scontenta chi aveva trovato piacevole l’insolito connubio narrativo.
Per questo, il film si addormenta e si risveglia a fasi alternate, mostra qualche passaggio indubbiamente affascinante (come l’improvvisa assenza di gravità in piscina), mette in luce la bravura di Pratt e la Lawrence, e sembra alla fine tradire le promesse da film d’autore senza portare neanche fino in fondo il peso delle sue trovate narrative.

Gianlorenzo Franzì

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