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La Principessa dalle mani di cera: è un thriller o una fiaba!? Parte Seconda

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mani di cera

Intanto che lui si disperava, la sorella era nel bosco, esangue, quasi dissanguata: per caso, si trovava a passare di là un lord inglese, col suo calessino e, sentendo tutti quei singulti, si appressò

La vide in un lago di sangue e le chiese chi l’avesse ferita tanto brutalmente: lei gli replicò che erano stati degli animali feroci a divorarle le mani.

Allora, quell’albionico, pensò di prendere della stoppa, che aveva nel suo calesse, per arrestare quei flutti zampillanti di rosso; poi, la fece accomodare sul landò, per prendersene cura, una volta giunti nella sua rispettosissima residenza, insieme alla cara consorte Claretta.

Strada facendo, le riferiva di essere senza figli e che da lui avrebbe condotto una vita dignitosa, sicuramente! Lei si lasciò coccolare da quelle parole e, parla parla, arrivarono dritti a casa.

Quel gentleman chiamò tempestivamente dei medici: a furia di cure e medicine i monconi di braccia guarirono, almeno questo! Successivamente, per farle ricomparire gli arti amputati, gliele fece rifare di cera. La reginotta, «panta rei», aveva superato di poco i vent’anni e, con tutte le paturnie derivate dalle evidenti difficoltà manuali, si manteneva fresca ed aulentissima come una rosa di giardino.

Cielo D’Alcamo sarebbe diventato bruzio, per patria d’elezione, se l’avesse conosciuta, mi sa! Un giorno, mentre se ne stava affacciata al balcone, per strada si trovò a passare un re forestiero.

La guardò, gli fece subito simpatia e le mandò una proposta di matrimonio. Il londinese accettò quel buon partito ma pensò di rivelargli che due protesi non gli avrebbero mai permesso di inanellarle un prezioso ad uno delle sue dita. Il re rispose che non gliene importava niente e se la prese ugualmente in isposa.

Così la condusse al Palazzo reale e, dopo qualche tempo, rimase incinta. Nel frattempo scoppiò una guerra ed il marito partì col suo esercito contro i nemici. Mancò di casa per un bel pezzo, mentre la nostra reginotta partorì due bambini, un maschio ed una femminuccia. In tutto ciò, i ministri, che mal sopportavano di essere governati da una donna, di cui non si conoscevano nemmeno le origini, pensarono di approfittare della circostanza per liberarsene.

Nottetempo la strattonarono, per darle una bisaccia, ove infilarono dentro i due pargoletti, uno da una parte e una dall’altra, facendola sperdere in una spiaggia deserta. Rimasta da sola, la miserella si mise a piangere a dirotto, né poteva darsi da fare, con quei monconi di braccia. Ad un tratto si presentò un vecchietto con le espressioni più serafiche di questo mondo: «Bella ragazza, che hai da piangere in questo modo!? Hai smosso me, per venire da te».

Lei, di rimando, gli raccontò ogni cosa e, sentita questa storia penosa, il buon uomo, che era niente poco di meno che San Giuseppe, fece comparire una sorgente d’acqua viva: «Non fa nulla, figliola, ora lavati le mani qui dentro!».

Lei seguì le sue indicazioni e si vide spuntare le mani in un batter d’occhi; dopo aver allattato i piccoletti, finalmente da sola, senza essere sorretta da alcuno, si riprese d’animo, mentre il bravo Santuccio cogitava di sistemarla, in tutta sicurezza, sul cocuzzolo di una montagna. Cogitat, ergo est Iosephetus: Cartesio sta nel presepe, praticamente!

Lì c’era una casina, la fece entrare e le disse: «ora puoi rimanere qui, ché non ti mancherà alcunché. Io non ti abbandono, per principio, modo avverbiale del Verbo, che tutto fa principiare per il meglio». Detto questo, è spontaneo chiedersi, a mo’ di necessaria digressione, che fine abbia fatto Paolo, di cui abbiamo perso le tracce, dopo tutto questo racconto della donna dalle estremità cerate. Beh, credendo morta la sorellina, si sentì smangiato dal pentimento, al punto che aveva deciso di allungarsi la barba fino al petto, per il dispiacere di avere acconsentito a fare ammazzare un’innocente. E siccome la moglie era stata la causa di quest’ingiustizia, l’aveva fatta sbattere in un fondo di prigione.

Un giorno i suoi cortigiani lo portarono fuori di casa ma, quando si trovarono in campagna, lui si allontanò e perse la strada. Cammina cammina, capitò sull’altura dove si trovava Francesca, con i due bambini Gemma e Carletto; e, per una strana congiuntura astrale, pure il marito, che l’andava cercando in lungo ed in largo, era giunto in quei paraggi.

Il fattore C è presente persino nelle fiabe, che devo dirvi!?

Di colpo, si aprirono le cateratte del cielo e cadde giù una pioggia fittissima: i due regnanti non sapevano dove trovare riparo. Ma arriva il solito vecchio e, per farli incontrare, porse queste raccomandazioni: «Venite con me, brava gente; conosco una dimora qui vicino, dove potete ripararvi, finché non spiove» e fece segno di seguirlo. Fu una serata confortevole per entrambi: un convito ristoratore, allietato dalle voci di due piccini, che tubavano, affettuosamente, come due innocenti piccioncini. Seguì un morbidissimo silenzio, quasi a preparare le parole che avrebbero cambiato il cuore dei nostri ospiti. Perché?

La femminuccia, che era la più sveglia, cominciò a parlare e raccontò la storia di sua madre, dal momento che l’avevano portata nel bosco, fino a quando s’era sposata. Il fratello, sentendo questi fatti, si diceva tra sé: «Ma questa pare mia sorella!». Quando finì la bambina, attaccò il maschietto e raccontò il seguito della narrazione, da quando la mamma s’era sposata con un re fino al momento in cui un bravo vecchietto li aveva sistemati nell’abitazione, dove tutti si trovavano in quel preciso istante. Il re, sentendo dire queste cose restanti, si ripeté: «Allora questa donna è mia moglie!».

I due non ebbero più alcun dubbio e l’uno si abbracciò la sorella, chiedendole perdono, e l’altro prese in braccio i figlioletti, baciandoli ed accarezzandoli, con le lacrime agli occhi. San Giuseppe assisteva a questa scena tutto contento: ché dopo tanti guai, grazie a lui, il marito ritrovava i figli e la moglie che piangeva per persi, e il fratello, pentito del suo errore, s’incontrava con la sorella ed i nipoti.

Dopo che tutti si riconobbero e fecero festa, il Santino di tutti i papà si congedò con circospezione: «Ora che la mia parte è finita, vi dò la santa benedizione» e sparì senza farsi notare nel mezzo di tutta quell’allegrezza. Per la strada, invece, il fratello disse alla sorella: «quando saremo arrivati, che cosa vuoi farne di mia moglie, che ora è in prigione?».

«Io la perdono», pare che avesse risposto Francesca, ingoiando il rospo, perché non lo pensava, naturale! Una seconda possibilità si concede a chiunque ma dopo tutta quella straordinaria intercessione del Cielo, se avesse fatto applicare il codice di Hammurabi, «chissà cchi cci avèra ’mbattutu»?!

Meglio non rischiare: «All’urtimu e alla fini sa stufava, illu, ccu lli cipullu, sta mangiacapilli: affari sua eranu!».

P.S.: la fiabetta porta il nome, nel manoscritto, di chi ne ha tramandato la storia. Nel nome di una donna: Annunziata Palermo, lo trovo fiabesco!

Prof. Francesco Polopoli

A Maria Francesca, con cui condivido, in amicizia comune, la mia stessa mamma. Moltiplicazione di affetti nel vangelo della vita….

P.S. 2: Preferisco consegnare e conservare la fiaba nella stesura originaria, per rammemorare lo stile di una penna giovinetta che, seppur non limata, racchiude lo stesso fanciullino di fronte a quanto mi appassiona da sempre.

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