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Sorellanza o della difficile convivenza

4 min di lettura

sorellanza - sugo fintoLamezia terme, 15 dicembre 2017, Teatro Comunale Grandinetti. Quarto appuntamento della rassegna teatrale “Vacantiandu 2017” con la direzione artistica di Diego Ruiz e Nico Morelli e la direzione amministrativa di Walter Vasta. In scena Sugo finto scritto da Gianni Clementi, diretto da Ennio Coltorti e interpretato da Paola Tiziana Cruciani e Alessandra Costanzo.

Lo spettacolo, scritto da Clementi espressamente per le due attrici protagoniste e già vincitore della rassegna Attori in cerca d’autore di Ennio Coltorti, è una storia divertente e commovente sulla poetica della tranche de vie.

Una stanza scarsamente illuminata, l’ordine gelido della mobilia ad evocare una tetra periferia romana e suppellettili che tanto ricordano quelle “buone cose di pessimo gusto” del salotto di nonna Speranza di gozzaniana memoria. Non una finestra o un balcone che metta in comunicazione con il mondo esterno, che faccia intravvedere uno spicchio di cielo. La vita di fuori (o meglio la sua rappresentazione) irrompe attraverso un vecchio televisore (unica concessione alla modernità) sintonizzato su “Uomini e donne” di Maria de Filippi o viene sollecitata dalle telefonate notturne al sedicente mago Celsius che legge i tarocchi in un programma di chiaroveggenza su una TV locale.
In questo spazio vivono due sorelle zitelle, le “signorine” Addolorata e Rosaria, proprietarie di una piccola merceria, che si dilaniano senza requie tra ondate ricorrenti di amore-odio in un rapporto manifesto e mascherato di reciproca dipendenza, consuetudini e affinità negate. Diverse eppure non dissimili anche in quella simmetrica zoppia che le accomuna.

Tirchia, impaurita e affezionata Rosaria quanto vorrebbe essere spendacciona, libera e cinica Addolorata.
Addolorata la sognatrice, la “pupa”, come la chiama ancora la sorella con una punta di invidia che affonda le radici nell’infanzia. La superba interpretazione di Paola Tiziana Cruciani delinea un ritratto di donna caratterizzata da un tenero “astio famelico”, cosciente di essere costretta dalla sorella tirchia a vivere da povera.
Lei che ha fame di carne, di comodità, di vestiti nuovi (vagheggia un delizioso tailleur beige da indossare per il matrimonio del cugino Augustarello).
Donna incompiuta che ha fame di vita. Eppure quella vita tanto desiderata e assaporata fugacemente: un incontro, il televisore nuovo, il forno a microonde, il pollo arrosto con le patate, le riserva una sorpresa ancor più amara gravandola di una responsabilità che in quei gesti infantili riservati alla sorella, ridotta ormai ad un destino di silenzio, si colora di amorevole rassegnazione.
Rosaria l’avara, avara di denaro ma non di sentimenti. Una vibrante Alessandra Costanzo ci regala una donna tutta casa e lavoro, lavoro e casa, sorella-padrona, unica a vegliare su un ordine di valori domestici che non deve essere compromesso e che solo lei pensa di sapere difendere fino in fondo.
Misura e sobrietà sono i suo imperativi mentre la sua tirchieria è forse identificabile con un’ansia “d’accumulo” dettata dalla paura della solitudine e dall’urgenza di garantirsi un futuro dignitoso. Ma è anche ragione di scontro quotidiano con la sorella, tra antichi livori e ruvide attenzioni.
Eh sì, perché Rosaria non è cattiva. Inflessibile, concreta e permalosa, il suo è un affetto pragmatico ma profondissimo che si manifesta per gesti minimi scevri da qualsivoglia sentimentalismo.
Poi il bouleversement in cui Alessandra/Rosaria, colta da ictus ma condannata alla lucidità, con mirabile metamorfosi fisica rimane muta e immota di fronte alla soddisfatta rivalsa di Paola/Addolorata: il conto in banca che inesorabilmente si prosciuga, l’ordine impeccabile della casa con i suoi immacolati centrini che si anima di uno scalpiccio esibito, di una confusione non prevista…
Il disfacimento fisico accompagna quello domestico mentre Addolorata si illude di poter finalmente vivere la vita. Si illude, appunto. Perché “due sorelle sono due rami dello stesso albero. Possono divergere quanto vogliono con gli anni, ma il tronco resta quello”. Così il gioco delle coppie, che la malattia aveva momentaneamente bloccato, riprende e i ruoli si invertono in un finale dolceamaro che lascia il pubblico con una lacrima e un sorriso.

La felice scrittura drammaturgica di Gianni Clementi si dipana in modo da creare cortocircuiti di sensi, reiterazioni, frecciatine, espressioni icastiche sì da far intravvedere la complessità dei sentimenti  oltre la logica dell’apparenza.
La regia di Ennio Coltorti, condotta con geometrico rigore, è costruita sul rapporto delle due sorelle, sulle parole che dicono, sui gesti che fanno. Ed è un continuo trascolorare dallo scontro violento alla leggerezza di un dialogo, dalla risata al sorriso, dall’urlo al silenzio.
Le protagoniste sanno infondere personalissime sfumature di ironia e humour che, unitamente al romanesco, alleggeriscono la tensione e la ferocia di alcune battute che pur disvelando le loro grandi debolezze, il loro egoismo e la loro piccineria portano alla luce anche il loro “bisogno di restare umane” perché di quel sugo finto – che del ragù ha solo la parvenza – esse sono la carne, l’anima, il sapore.

Chapeau!

Giovanna Villella

[foto di scena Ennio Stranieri]

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