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I testimoni di giustizia Bentivoglio e Mangiardi si raccontano agli studenti

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Sono testimoni che si sono ribellati alla ‘ndrangheta rifiutando di pagare il pizzo e denunciando i delinquenti

PIANOPOLI. Si è svolto ieri a Pianopoli l’incontro dal titolo Storie organizzato da Risveglio ideale e dall’associazione Muse.

L’evento, diretto agli studenti delle scuole medie, ha posto l’accento sulle vicende personali di Tiberio Bentivoglio e Rocco Mangiardi, entrambi imprenditori e testimoni di giustizia.

La discussione, moderata dalla giornalista Maria Scaramuzzino, si è arricchita anche dei contributi di Angela Napoli, presidente di Risveglio ideale, e dell’avvocato Giovanna Fronte.

Il primo a prendere la parola è stato Tiberio Bentivoglio che ha raccontato la storia della sua impresa a Reggio Calabria, ricordando il primo incontro con i mafiosi.

“Ho incontrato la ‘ndrangheta quando è entrata armata nel mio negozio. A chiedermi il pizzo la prima voglia fu un ottantenne che viveva a dieci metri da me. Un uomo che oggi è ancora libero e può godersi la famiglia”. A quella richiesta di protezione, preceduta da un significativo rimprovero per non aver chiesto le dovute “autorizzazioni” al clan, ha fatto seguito il solido rifiuto dell’imprenditore reggino che, insieme alla moglie, ha deciso poi di denunciare. La strada non è stata facile.

“Il nostro negozio andava bene, ci eravamo anche ingranditi ma, intorno all’ottobre del 1991, proprio al termine della seconda guerra di ‘ndrangheta che aveva martoriato la città, tutto ci è crollato addosso. Dovevamo inaugurare i nuovi locali. La richiesta del pizzo è arrivata a ridosso dell’inaugurazione. Abbiamo detto no dopo diverse notti in bianco, impauriti ma sicuri sul da farsi”. Un rifiuto che è costato caro a Bentivoglio: 7 attentati tra messaggi minatori, incendi e colpi di pistola (tre dei quali lo hanno ferito). Tuttavia l’imprenditore e sua moglie non hanno ceduto, sono arrivati in tribunale e hanno puntato il dito contro gli aguzzini.

“In tribunale io e mia moglie però eravamo soli, sotto la minaccia degli uomini dei mafiosi che invece erano sempre presenti in gran numero per sostenere i loro capi. Non è stato facile neanche trovare un avvocato che mi patrocinasse! E non perché a Reggio non ce ne fossero! Anzi, ricordo che è la quinta città italiana per numero di avvocati! Purtroppo però è più redditizio difendere i mafiosi! Ho impiegato nove mesi per trovare un avvocato”.

La vita di Bentivoglio e della sua famiglia non è facile, ma è libera. “Ci definiscono vittime della ‘ndrangheta. Ma non siamo noi le vittime. Quelli che pagano il pizzo sono le vere vittime, noi siamo ribelli. Non abbiamo perso né la dignità né la libertà”.

Storia del tutto simile a quella narrata da Tibero Bentivoglio è quella dell’imprenditore lametino Rocco Mangiardi che, grazie alla sua denuncia, ha aiutato le forze dell’ordine a infliggere un duro colpo alla cosca Giampà.

“Noi siamo cittadini responsabili”, ha sottolineato Mangiardi. “Dopo la denuncia siamo diventate persone libere. Anche perché”, ha continuato, raccontando come, nel 2006, fosse stato preso di mira dai Giampà che pretendevano che pagasse il pizzo, “i mafiosi in realtà sono dei vigliacchi. Il nostro dito puntato su di loro nelle aule di tribunale è più forte delle loro armi. Da quando ho testimoniato, io sono diventato l’uomo più libero della terra. Se non lo avessi fatto, non avrei potuto più guardare i miei figli negli occhi”.

Il no sonoro che Bentivoglio, Mangiardi e altri imprenditori hanno gridato in faccia agli uomini di ‘ndrangheta è, in primo luogo, il rifiuto di trasformare i sacrifici di anni di lavoro in capitale volto a foraggiare azioni criminali. “Noi abbiamo deciso di non pagare questa tassa del terrore e stiamo vivendo gli anni più felici della nostra vita”, ha concluso Mangiardi ricordando ai ragazzi come la sua scelta sia stata determinata dal forte peso che hanno avuto la famiglia, la fede, l’amore per la propria terra, ma soprattutto la libertà e la dignità.

Daniela Lucia

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