LameziaTerme.it

Il giornale della tua città



Trame10. Grandi ospiti per la decima edizione del Festival dei libri sulle mafie

7 min di lettura

Lamezia Terme, 1 settembre 2021. La decima edizione di Trame. Festival dei libri sulle mafie ritorna dal 1° al 5 settembre a Lamezia Terme, dopo lo stop imposto dall’emergenza pandemica. Un appuntamento atteso dalla città non solo per la qualità degli ospiti proposti ma soprattutto per la capacità di creare comunità, senso di appartenenza e ricordarci che la strada per la legalità è ancora lunga e disseminata di ostacoli. Bisogna continuare a “resistere”, come recita il claim scelto quest’anno sotto la nuova direzione artistica del giornalista Giovanni Tizian.

La prima giornata ha fatto registrare il sold out per gli ospiti della fascia serale che dalle ore 20 in poi si sono succeduti sul palco di Piazzetta S. Domenico. Nel primo incontro, il nuovo direttore artistico di Trame, Giovanni Tizian, ha dialogato con i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia sul tema “Domani. Come nasce un giornale” ovvero la scommessa (vinta) sulla realizzazione di un giornale sia in versione cartacea sia in versione web. Un progetto, che a differenza delle altre testate, non si sofferma sulle notizie del giorno precedente ma offre approfondimenti continui con una squadra di inchiestisti per rispondere alla fame di “buon giornalismo” del lettore non distratto. Domani è un giornale libero e progressista, impostato sul modello anglosassone, che cerca di fare inchieste su tutti con sguardo imparziale. Ha uno stile chiaro, lontano dal “giornalese” ed è aperto ai consigli e alle proposte che arrivano da parte dei lettori. Per Fittipaldi, Tizian e Trocchia sono la curiosità, la passione e il divertimento i tre ingredienti necessari a “formare” un bravo giornalista d’inchiesta che non può copiare veline e comunicati stampa ma deve essere capace di fare questo mestiere con la schiena dritta, cercare quelle notizie che per altri potrebbero risultare “scomode”, avere come soli obiettivi finali informare il lettore e tentare di rendere un servizio alla trasparenza e alla conoscenza. Purtroppo la fotografia dell’informazione nel nostro Paese è desolante. Intanto è necessario operare un distinguo tra cronaca giudiziaria e inchiesta. Quest’ultima nasce, infatti, dalla necessità di scavo per arrivare alla verità, ma i giornalisti di inchiesta non fanno carriera quindi, spesso, non si cimentano in quella che dovrebbe essere una informazione libera anche perché il potere si muove in tanti modi facendo pressione sull’editore o intentando cause temerarie mentre la politica – nonostante le diverse proposte di legge presentate dai tanti governi che si sono avvicendati- rimane in una situazione di stallo e non fa nulla, non tanto per proteggere i giornalisti quanto i lettori che hanno diritto ad una informazione di qualità. Inoltre, per fare giornalismo d’inchiesta è necessario imparare delle metodologie che si possono apprendere solo facendo pratica nelle redazioni le quali, oggi, non consentono più l’accesso ai giovani. Va anche ribadito che una buona inchiesta si fa con il tempo e la giusta retribuzione per chi quel tempo lo impiega. L’informazione ha un costo che va sostenuto e ogni inchiesta ha un valore perché è il tempo che dà valore all’inchiesta. L’informazione gratis è nefasta per l’informazione in generale e lo può diventare persino per la tenuta democratica del paese. Ancora oggi al Nord come al Sud ci sono articoli che vengono pagati pochi centesimi a rigo. Come si fa a fare informazione libera e di qualità se non si è liberi dal ricatto economico? Essere indipendenti dal punto di vista economico è un diritto di tutti ma si è passati ormai dal precariato allo sfruttamento e la politica continua nella sua inazione realizzando, scientemente, l’obiettivo che si è il posto il potere ovvero quello di avere giornalisti sudditi e supini.

Secondo ospite della serata il procuratore Nicola Gratteri intervistato da Alessia Candito. Prendendo l’abbrivio dal suo ultimo libro “Non chiamateli eroi”, scritto a quattro mani con Antonio Nicaso e dalla storia del mugnaio Rocco Gatto, primo testimone di giustizia in Italia che, negli Anni ’70 ha avuto il coraggio di denunciare i suoi estortori e poi viene ucciso dalla ‘ndrangheta, Gratteri ribadisce che la mafia prolifera nei territori in cui la politica, il volontariato, le istituzioni sono assenti. I capimafia diventano così soggetti sociali in grado di dare risposte al territorio a differenza dei politici che limitano la loro presenza esclusivamente al periodo “funzionale” alla loro tornata elettorale. Con un richiamo all’attuale quadro politico, egli afferma che l’azione della commissione antimafia, che dovrebbe garantire candidature “pulite”, rimane comunque parziale perché dovrebbe essere la politica stessa ad avere la capacità di rigenerarsi al suo interno. Parole molto dure riserva poi alla Riforma Cartabia. Una riforma devastante in cui l’introduzione della norma sulla “improcedibilità” andrà ad inficiare almeno la metà dei processi in quanto il limite di due anni imposto per la conclusione del processo penale dopo la condanna in I grado non potrà garantire la giustizia ma minerà, soprattutto, la fiducia di tutti quei cittadini che hanno trovato il coraggio di denunciare. La riforma Cartabia impedirà di arrivare a sentenze definitive per mafiosi, faccendieri, massoni deviati, politici collusi perché, pur escludendo dalla norma sulla improcedibilità i reati di mafia e quelli a sfondo sessuale, molti altri quali corruzione, concussione, collusione e reati ambientali non sono contemplati.  Un breve accenno anche alla riforma Orlando sulle intercettazioni che, di fatto, sancisce l’impossibilità di poter svolgere indagini. Poi la sua dichiarazione d’amore, amara appassionata, alla Calabria. Lavorare in Calabria è stressante ed esaltante allo stesso tempo, ma è anche pericoloso, bisogna sempre stare attenti alla vita di relazione e questo modus vivendi accomuna tutte le persone che, svolgendo ruoli di controllo, non possono e non devono essere ricattabili anche perché stare lontano dai centri di potere significa aumentare il consenso e la fiducia della gente. Lineare il suo pensiero sull’impiego dei soldi del Recovery Fund. Infatti, nonostante il legittimo quanto diffuso timore di infiltrazioni mafiose da parte degli imprenditori, Gratteri ribadisce con veemenza la necessità di presentare i progetti per la realizzazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo della Calabria alla quale devono essere offerte le stesse opportunità del Nord e poi sposta il focus sull’importanza di fare sinergia. A cosa servono tre aeroporti e tre Facoltà di Giurisprudenza nella nostra regione? Fondamentale è invece la Facoltà di Agraria all’Università di Reggio di Reggio Calabria e altrettanto utile sarebbe istituire una Facoltà di Turismo per incentivare l’imprenditoria turistica e non fare accoglienza predatoria nei confronti di coloro che vengono in vacanza in Calabria durante i due mesi estivi. Bisogna uscire dal sottosviluppo e smettere di essere sempre l’Africa del Nord. Le opere si possono fare se ci sono la volontà, il senso dello Stato, l’orgoglio dell’appartenenza. Ne sono esempi l’aula bunker più moderna d’Europa costruita in 4 mesi e mezzo e la nuova Procura di Catanzaro ricavata nell’ex ospedale militare del capoluogo che avrà anche uno spazio esterno per la realizzazione di eventi aperti alla città. Tuttavia la battaglia per sconfiggere la ‘ndrangheta non è vinta, c’è bisogno della politica “pulita” e di cittadini attivi nel sociale per poter continuare a dire “No” al potere mafioso.

Terzo ospite Pif intervistato da Giovanni Tizian. L’occasione è data dall’ultimo libro di Pif, “Io posso. Due donne sole contro la mafia” scritto insieme a Marco Lillo. Una narrazione alla maniera di Pif, semplice e diretta, caratterizzata da pause ed esitazioni sincopate che ne costituiscono, ormai, la cifra stilistica. Il libro racconta la storia delle sorelle Pilliu, Maria Rosa e Savina, che hanno sfidato la mafia credendo nello Stato. Una storia che dura da 30 anni e non è ancora finita. Tutto inizia a Palermo, a Piazza Leoni, dove un costruttore legato alla mafia decide di costruire un palazzo di 7 piani che poi diventano 9 ma, per poter realizzare il progetto, deve acquisire la proprietà delle case ubicate difronte al lotto di terreno su cui deve sorgere la nuova costruzione. Comincia così a demolire le palazzine adiacenti a quelle in cui abitano le sorelle Pilliu le quali, tuttavia, non cedono la loro proprietà. Anzi, nonostante le continue minacce e le intimidazioni denunciano tutti, senza paura. Dopo 30 anni lo Stato dà ragione alle due sorelle condannando il costruttore a risarcire le Pilliu le quali, però, non possono essere pagate perché lo Stato ha sequestrato i beni al costruttore. Le Pilliu si rivolgono al fondo per le vittime di mafia ma non viene riconosciuto loro lo status di vittime della mafia. Nel frattempo, l’agenzia delle entrate recapita loro una cartella con la quale chiede la percentuale del 3% per la somma che è stata loro concessa dal tribunale ma che in realtà non è mai stata liquidata. Vittime due volte, le sorelle Pilliu. Prima della mafia poi dello Stato in cui hanno creduto ma che ancora oggi non è in grado di tutelarle. I proventi derivanti dalla vendita del libro servono a raccogliere fondi per pagare quel 3% che lo Stato esige ma servono anche per scrivere il finale di questa storia ovvero ricostruire le casette demolite in Piazza Leoni. Una storia di resistenza portata avanti da due sorelle testarde e tenaci come la loro terra d’origine, la Sardegna. Due donne sole che hanno saputo mettersi contro la mafia senza paura, senza l’appoggio di figure di riferimento maschili (avevano solo la mamma) e senza il conforto delle Istituzioni a cui pure si erano affidate. Solo Paolo Borsellino aveva creduto in loro ricevendole ben 4 volte nell’estate del 1992. Al quinto appuntamento Borsellino non è riuscito ad arrivare. Maria Rosa, affetta da Alzheimer, è morta quest’anno, a Riace. Savina è ancora in attesa di giustizia. Sarebbe bello se la parola FINE la scrivessimo tutti insieme sostituendo l’espressione “Io posso” del titolo, da sempre metafora del potere non solo mafioso, in “Noi possiamo”. Perché anche un gesto semplice come leggere un libro può essere rivoluzionario e cambiare la storia.

Giovanna Villella

Click to Hide Advanced Floating Content