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“Malinverno”. Appunti per una lettura

6 min di lettura

Malinverno ovvero dell’amore, della morte e di altre umane passioni e sovrumane

Terzo romanzo di Domenico Dara (Feltrinelli 2020) che conclude una triade iniziata con il Breve trattato sulle coincidenze e seguita da Appunti di meccanica celeste, entrambi editi da Nutrimenti.

Un romanzo la cui intima sostanza si nutre di altri romanzi. Di  nomi già sentiti e di storie già lette. La scrittura appare guidata da altri testi e dalle regole dei generi letterari e Dara ricodifica nel suo testo i testi che da lettore ha decodificato affidando al protagonista, Malinverno, il processo e le modalità di interpretazione.

La storia è immersa in un paese, Timpamara, e in un paesaggio crepuscolare bagnato da una luce fra il bianco e il nero, che entrano in quello che è l’ordine narrativo come realtà e simbolo facendo di questo romanzo un conte philosophique costruito sulla tensione dialettica tra illusione narrativa e meditazione filosofica in cui si ritrovano alcuni topoi che caratterizzano la scrittura dariana: la cosmogonia, la numerologia, le coincidenze, la pazzia, le metafore attinte dalla natura.

E poi c’è la mise en abîme dell’oggetto-libro attorno a cui si focalizzano i principi della biblioteconomia, la sua conservazione e trasmissione. Il libro come strumento capace di generare connessioni culturali intorno alla parola scritta, il libro investigato nella sua intima relazione con il lettore e ancora la “natura del libro” apparentemente non soggetta a mutamenti. Ma i libri, in quanto oggetti materiali, solidi e tangibili, qui rivelano la propria malleabilità e, attraverso un processo di antropomorfismo, mostrano un loro ciclo vitale di nascita-vita-morte. La loro sacralità, glorificata dall’analogia tra il foglio di carta e l’ostia generati – forse – dalla stessa spiga, ché certi libri sono fatti di carne e sangue, è celebrata non più come fenomenologia ma come istanza e progetto di valore. Così, l’immagine finale dell’altare di marmo color ocra nella cappella/biblioteca diventa rappresentazione plastica di quell’altare di parole dettate dall’amore e dalla pietà e immerse nella corrente del linguaggio a cui attinge l’incanto del racconto. Un altare di parole che è l’elemento propulsivo in grado di incidere sulla realtà per cambiarla, non seguendo un’idea di palingenesi, ma restando nel perimetro concreto della vita che non ignora la morte – secondo il pensiero di Heidegger – e si perpetua in parola scritta.

Un tempo fermo da secoli si stende su Timpamara che già nel nome reca un presagio di afflizione. Ma a questo tempo fermo e pesante come le lapidi di marmo infitte nella terra bruna del cimitero si oppone il librarsi dei fogli di carta del macero che vagolano nel cielo come polline a fecondare le menti degli abitanti. Alla dimensione di silenzio che regna nel paese dove la natura sembra non avere grazia né suono fa da controcanto la voce dei libri.

Qui vive Astolfo Malinverno, bibliotecario e guardiano del cimitero con la vocazione del raisonneur epico e straniato che si colloca in posizione acentrica rispetto all’universo che lo circonda. Imperfetto nel corpo e continuamente tormentato dalla categoria dell’assenza, egli esprime un costante bisogno di compimento.

La sua vita, come inscritta in una traiettoria di quadrati, si svolge inesorabile tra i due “punti cardinali” della sua esistenza: biblioteca e cimitero. Ma al Chronos inesorabile segnato dall’orologio della chiesa e alla clessidra nella camera mortuaria che, unitamente alla piuma e alla polvere, è simbolo di quella vanitas tanto cara alla pittura del Seicento, Malinverno oppone il tempo individualissimo dell’Io che lo porta a sognare un Altrove, una “dimensione desiderante” – alla maniera di Bergson – nella quale, per lui, tutto possa essere nuovo e diverso a cominciare da se stesso perché il silenzio di certe esistenze, a volte, può essere più assordante del Nulla. Eppure queste due realtà non convivono: sono la stessa realtà in due mondi complementari dei quali l’uno è l’ipotesi fantastica che corregge e critica l’altro.

Così la sua maniacale disposizione all’ordine e all’inventario, indispensabile nel suo lavoro di bibliotecario, si riverbera nel suo vissuto quasi con il disperato bisogno di impadronirsi di una vita dimidiata.

Il suo amore per i libri e la sua concezione eroica della letteratura discendono dalla catena familiare padre-madre. Il padre, con il suo lavoro al macero, e la madre, con la sua capacità di raccontare storie diventano strumenti magici che trasformano le cose in segni e i libri in atti ed eventi del mondo.

Con il postino del Breve trattato sulle coincidenze, Malinverno condivide la solitudine, la concezione della morte e l’attitudine alla penna generosa. Il postino affida al caso i suoi messaggi disseminandoli nel mondo e addolcisce i destini altrui riscrivendo le lettere che portano notizie nefaste. Astolfo riscrive i finali “imperfetti” dei libri che non contemplano la morte dei protagonisti e aggiunge postille al registro cimiteriale per porre rimedio alle umane ingiustizie. Entrambi appartengono alla schiera degli infelici per amore che non hanno mai conosciuto il riso e il gioco del fiore sfogliato. Il postino rivede Rosa, la donna da sempre amata, nel cimitero di Girifalco. Astolfo si innamora di un viso murato su una lapide senza nome nel cimitero di Timpamara. Emma Bovary viene chiamata l’imago amata che si “invera” in Ofelia la quale, con l’eroina shakespeariana, condivide nome, infinita desolazione e destino da suicida.

Ofelia, creatura lunare e delicata, inafferrabile come un’ombra dalla cui figura fioriscono movimenti silenziosi e ripetuti nei quali l’anima sembra trovare il riposo del Tempo. I suoi discorsi brevi, ermeticamente chiusi parlano un linguaggio misurato e sorvegliato, obbligato a percorrere una enorme distanza perché legato, dall’interno, ad una agitazione oscura, a un disturbo che genera un dolore senza consolazione. Un fraseggio visibile ma non trasparente, vestito di nebbia e presago di morte a cui Malinverno si attacca come un naufrago alla deriva. Eppure quanta dolcezza narrativa nel suo affidarsi allo sciogliersi lieve dell’amore per lei che avrebbe voluto offrirgli, senza reticenza né segreto, la sua malattia, la sua malinconia, il suo sole perduto!

Tutti i personaggi, persino il cane nero che presenzia ai funerali, hanno nomi letterari o cognomi toponomastici, omaggio – questi ultimi – dell’autore alla sua Calabria, anche se il paese in cui si svolge la storia è un luogo simbolico, privo di precise coordinate geografiche in un Sud spinto oltre i propri limiti territoriali che si slarga in metafora esistenziale.

Le intime interferenze della vita e della morte sono sublimate nella figura di Caramante che cerca di catturare le voci dei defunti e in quella di Elea il Risorto che, nel suo ostinato e volontario mutismo, trova la sua concretezza di personaggio laddove, in una atmosfera elusivamente gotica con vaghe risonanze de La sposa cadavere di Tim Burton e prezioso richiamo all’episodio della “sposa nera” in Appunti di meccanica celeste, la pietosa tenerezza della scena del matrimonio tra Margherita e Fiodoro si risolve nel quadro di una sofferenza perfetta in cui il punto più alto del dolore non è la morte ma il dolore medesimo che governa quel luogo provvisorio che è la vita.

Tuttavia, la presenza continua della morte e dei morti non fa di Malinverno un’opera intimistica, una ballata del tempo perduto o una evasiva elegia ma si sustanzia in un icastico sguardo di luce nella sofferenza.

Il romanzo, dalla cui intramatura poetica viene espunto quel cromatismo gergale che pure aveva costituito la cifra stilistica delle due opere precedenti, riconferma e consolida la felice e autentica disposizione di Dara alla narrazione. La sua stessa forza di narratore, quella capacità di indugio e di sintesi che gli permette di condensare in pochi tratti un carattere o un destino, non è naturalistica né realistica stricto sensu ma è lo sviluppo, nel tempo narrativo, di momenti assoluti che sanno trasferire nella misura dell’arte l’idea di una vita o di una realtà privilegiando elementi di una interiore fantasia.

Così Malinverno si rivela un’opera di rara alchimia che sa unire cielo e terra, illusioni e realtà, salvezza e dannazione, alleluia e requiem.

Giovanna Villella

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