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“Max Marra. L’inquieta bellezza della materia” a cura di Teodolinda Coltellaro. Appunti per una lettura

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Dal 25 giugno al 7 settembre 2021 il Museo MARCA di Catanzaro ospita una retrospettiva dell’artista Max Marra dal titolo “L’inquieta bellezza della materia” con 115 opere che comprendono anche due assemblaggi polimaterici, una installazione e 38 “Timbriche”. Presente, inoltre, una sezione che propone alcuni scatti fotografici del maestro Marra realizzati da artisti amici. La mostra, promossa dall’Amministrazione Provinciale di Catanzaro e dalla Fondazione Rocco Guglielmo, è curata dal critico d’arte Teodolinda Coltellaro ed è accompagnata da un raffinato catalogo bilingue (italiano/inglese) pubblicato da Il Rio Edizioni, con testi di Teodolinda Coltellaro e Giorgio Bonomi mentre il progetto espositivo – in dialogo creativo tra luce, spazio e volume – è firmato dall’architetto Giovanni Ronzoni.

Bianco pentelico, rosso prepotente, blu regale, nero lavagna. Pittura tattile? Pittoscultura? Installazione? L’arte di Marra, eludendo qualsivoglia classificazione, vive di tutto quello che di processualità, di riflessi, di scarti, di contraddizioni il reale comporta, per tradursi nell’espressione di un immaginario che penetra la soggettività dell’artista assumendo tutti i linguaggi possibili e tutti gli strumenti espressivi.

In un contatto intimo con la materia, Marra trasforma il suo sapere artistico in un saper fare che, pur fondandosi sulla sperimentazione di linguaggi, tecniche, metodi, materiali, si tramuta in esperienza soggettiva, solitaria, intensa dell’artista.

Nella sintesi di esperimento e tradizione si viene a costituire un vasto campo di lavoro creativo che diventa antenna sensibilissima in grado di cogliere spiragli di eternità, al di là delle mere contingenze.

Ogni opera è un denso frammento narrativo dato in diversità di impianto stilistico a costituire l’idioletto dell’artista che si propone come rottura del livello denotativo, naturale e diretto del linguaggio. Infatti, nell’infrangere la referenzialità della rappresentazione, i criteri d’ordine non vengono più ricercati nella natura delle cose ma nel rinvio allegorico che colpisce la materia e la traduce in segni che riscattano, nella forma, l’effimero bagliore delle cose del mondo.

Di contro alla rassicurante e idealizzata abitabilità del mondo fatto a misura di uomo, Marra disgrega l’unità dell’essere umano ed emblematizza l’intrinseca caducità di ciò che, considerato rifiuto/scoria/scarto, rotola ai margini di un mondo che respinge/abbrutisce/ricusa, sottraendolo al rischio della dissoluzione per restituirlo come alterità dell’esistente.

Il mondo di Marra, nel gioco continuo delle metamorfosi e delle configurazioni allegoriche, vacilla tra immanenza e trascendenza.


Così i ventri gonfi delle Pance ferite sono il tentativo di esplorare il vuoto aperto dalla sfaldatura dell’essere. L’artista diventa quasi “archeologo delle proprie viscere” e quelle ferite come “asole del mondo”, quei tagli con bordi di spessore ritratti e buchi scavati come il tarlo sono suturati dalla sua “mano pietosa” come atto di immaginario risarcimento per un destino ineluttabile, inutile carezza a consolare ferite immedicabili.

Eppure, i lacerti e le rovine di un universo aperto in una vertigine di vuoto trovano apparente quiete nelle Dune d’Oriente ad evocare ampie distese risonanti per forza di colore, interrotte da solchi e levigate sporgenze e attraversate da corde tese come rete di pensieri intermittenti ad ancorare la materia.

Materia che, nella sua disperata lievità, incrocia solitari battiti di luce in Code comete.

Laddove la geografia della solitudine trova la sua espressione in Portali silenti. Qui il nero, come lingua d’asfalto, s’impone a mo’ di pacifico scudo sulla mappa immobile del tempo in cui si sperde la memoria.

Memoria che si transustanzia in groviglio, viluppo che aggredisce l’organizzazione lineare del tempo. Ogni speranza rimane disarmata e vulnerabile. Lo sguardo s’annega nell’intrico di maglie fallaci e compenetrazioni iridescenti che si ripetono uguali e diverse costruendo immagini di una infinità acentrata, in fuga, priva di contorni specifici e di garanzie metafisiche.

E mentre le istanze sociali disattese di ASP (Appunti sul Ponte) si smarriscono in guisa di segni, simboli e acronimi su materiche superfici attraversate da una fitta rete di vasi sanguigni, in Contemporanea aliena l’artista propone il suo linguaggio in un poema visivo. Il suo sguardo sul tragico corpo della vita, quasi voce disperata in un delirio coscienziale che accompagna il ritmo di una agonia universale e irreversibile, è affidato al suo grafismo pittorico in cui si aprono, per scambio o alterazione, macchie di colore e inusitate cromie come urlo muto del cuore del mondo.

Eppure, in un mondo disertato dalla trascendenza, i Bianchi miraggi e i Cieli di cosmos si presentano come acquee infinità gelate a disegnare una orografia spirituale attraversata dalle crepe del tempo in una animata vicenda di vuoti e di pieni che porta la materia fino alla sua estenuazione in una tensione che abbraccia anche la dimensione morale e intellettuale.

E il valore salvifico della preghiera (e dell’arte) si consustanzia in Francesco è solo.  Francesco, Santo di Calabria, iconizzato nella composizione polimaterica e terrigna del doppio codice territorio/memoria, esprime la compresenza di istanze spirituali e di tormenti da uomo contemporaneo irradiandosi come testimonianza d’amore per l’umanità tutta.

Nelle 38 Timbriche impaginate e fruibili come opera unica, la mano imprime dei timbri – marchi di identità/appartenenza – e poi agisce in tutta libertà con movimenti ampi e sovrani allestendo lo spazio con parallele acquose di china che dialogano con segni linguistici, grafici, fonici, numerici in un itinerario rappresentativo che consente all’arte di creare fratellanze inaspettate.

Ancora gli assemblaggi polimaterici, leggeri, aerei in cui austere lamiere metalliche incontrano la nobiltà del legno e altri materiali poveri in un dinamico gioco di volumi e linee geometriche e sinusoidali. E poi l’omaggio a Pasolini. Una installazione plastica che sembra riecheggiare il verso di Garcia Lorca “A las cinco de la tarde” con quel “Corpo presente e l’Anima assente” e la “sporta di calce già pronta” in cui è adagiato il calco del poeta friuliano a sottolineare il suo legame affettivo con la Spagna e, soprattutto, con i lirici spagnoli tra cui Machado, Jiménez e Rafael Alberti.

 

Nella accurata e imponente retrospettiva di Teodolinda Coltellaro, il processo artistico di Marra si configura come un cammino, intrapreso dall’artista nelle sue possibili varianti, per rintracciare le parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse, esplorando il potere dei segni in una raffigurazione narrativa che emancipa dalle catene di credenze eterne e schiude lo sguardo alla verità e alla libertà dell’arte. Eppure in quella materia palpitante, accesa di colore che risucchia/impasta/ricrea gesti e pensieri che, compiuti, riposano in altra materia – tutti gli inizi non sono che occultamente dei rimandi – non sempre tutto l’esprimibile è espresso, qualcosa è rimasto nel limbo dell’ineffabile e dell’indefinito per suggerire parole ai silenzi di chi guarda con occhi di stupore.

 

Giovanna Villella

[credits_Luigi Angiolicchio]

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