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In memoria dell’attore Gianrico Tedeschi

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A volte un semplice no, ti offre mille mondi.

E’ stato forse il primo attore che possiamo definire “postmoderno”, con quella sua straordinaria abilità nel mescolare stili e generi, l’alto e il basso, il classico e il popolare: tragico, comico, epico, dramma naturalistico, teatro astratto e leggero, musical, operetta, farsa, varietà, cabaret, show e sceneggiati televisivi, pubblicità, pellicole d’ogni genere; non c’è aspetto nel variegato mondo della rappresentazione scenica e filmica che non abbia frequentato, con immutato successo di critica e di pubblico.

Un attore (e ottimo doppiatore, tra gli altri ha prestato la voce a Walter Matthau nei film È ricca la sposo e l’ammazzo e Appartamento al Plaza) provvisto di capacità di canto e di sensibilità musicale, a suo agio con i testi dei drammaturghi e commediografi greci, di Shakespeare (memorabile il suo Shylock), Ben Johnson, Goldoni, Ruzante, Molière, Gogol, Dostoevskij, Cechov, Pirandello, Brecht, Pinter, Keiser, Brancati, Primo Levi, Thomas Bernhard, Testoni, che ha lavorato con tutti i mostri sacri del teatro e del cinema italiano, attori e registi.

Da qualche anno questo straordinario testimone del Novecento si è ritirato nella sua casa in pietra ricavata dall’ex canonica d’una chiesa di un minuto borgo immerso fra i boschi, nei pressi del Lago d’Orta, dove vive serenamente, immerso nell’immenso bagaglio dei ricordi accumulati in un secolo ricchissimo, in compagnia della seconda moglie, l’attrice Marianella Laszlo, conosciuta nel 1968 sulle scene delle Nuvole di Aristofane, e della sua spiritualità coltivata nel tempo.
Qualche giorno fa, il 20 aprile e’ stato   il suo  compleanno, una ricorrenza che, in un momento così difficile,  mi  ha offerto  l’occasione di rileggere la storia degli ultimi cento anni e di ripercorrere le nostre radici, celebrando un uomo che questo scorcio di tempo ha vissuto con straordinaria pienezza, con slancio e immutata passione per la vita e l’arte, mantenendosi fedele a principi etici e civili maturati in anni inclementi.

Difficile ripercorrere in poche note la lunghissima carriera di Gianrico Tedeschi, segnata da una coinvolgente carica umana, dal garbo, dalla levità e dall’umiltà, qualità che promanano dal viso dolce e mobile, dagli occhi sempre accesi di una sapida ironia, dal fisico agile e flessuoso, e che bucavano il velo che separa la scena dallo spettatore, lo schermo televisivo e quello cinematografico, ma ci provo.

Appena ventenne, diplomato alle magistrali, Gianrico fu arruolato come sottotenente e spedito a combattere sul fronte greco.

Nel 1943, catturato dai tedeschi, oppose il suo rifiuto alla Repubblica di Salò e venne internato  in un lager in Germania, dove trascorse due lunghi, durissimi anni. Sono i lager descritti in Diario clandestino da Giovanni Guareschi, che con Tedeschi condivideva un letto a castello. “Il nostro modo di resistere era metter su spettacolini”, racconterà poi. All’epoca Gianrico sognava il teatro, frequentato sin da bambino poiché il papà lo amava.

Una passione lenta a prendere fuoco, che si accende una sera, quando al Teatro Dal Verme della sua Milano per la prima volta vede Ermete Zacconi recitare negli Spettri di Ibsen. Per resistere alla fame, alla paura e agli stenti, imparando le parti sui libri che lui e gli altri internati si erano portati dietro, Gianrico recitava proprio quel dramma, L’uomo dal fiore in bocca e l’Enrico IV dell’amato Pirandello. Quest’ultimo, con quel magico, continuo fluire tra realtà e finzione, dovette aiutarlo non poco in quell’esperienza durissima, prima della liberazione operata da un contingente di scozzesi, “che arrivarono in sottana con le cornamuse

Recitazioni che erano veri e propri atti di resistenza culturale, posti in essere insieme a intellettuali e artisti compagni di prigionia, con i quali maturava come uomo e come cittadino, approfondendo una coscienza umana, politica e artistica: “La prigionia mi ha dato il senso della comunità e l’idea che il teatro parli della società criticandola, mostrando il marcio con ironia, con la fiducia che si può cambiare, c’è sempre una via di riscatto”.

Nelle innumerevoli interviste rilasciate ,una sua  frase mi ha colpito, forse perché’ la condivido pienamente :  L’importante – diceva – è non perdere mai la misura, sapere che ″il teatro è un grande gioco, magari tragico, dove si deve recitare  in modo ⁣semplice, buttato via, moderno″; poche parole per dire che bisogna recitare  in modo semplice e  moderno, ovvero senza utilizzare lo stile roboante del passato, non essere mai banali sul palcoscenico, evitare la superficialità e avere la capacità di “incarnare” il testo in una sorta di “incorporazione quasi spiritica”.

L’esperienza della guerra ed il teatro sono indissolubilmente legati nella vita di Tedeschi, che ha sempre dichiarato “Sono diventato attore perché sono stato in campo di concentramento”.

Così, dopo il conflitto decise di abbandonare il lavoro di maestro di scuola per iscriversi all’Accademia nazionale d’arte drammatica, una consapevole fusione della propria identità con quell’arte, che sarà sua per settant’anni, dal 1947, quando venne scelto e diretto da Strehler, sino al 2016, con l’ultima recita in Dipartita finale, dove appare con l’immutato entusiasmo del giovinotto che è sempre stato.

Lo spettacolo, diretto da Franco Branciaroli, vedeva con lui Massimo Popolizio e Ugo Pagliai, che così lo descrisse: “Ha ancora una voce squillante, e indubbiamente è quello che si muove più di tutti in scena.

È la tipica espressione beckettiana di un essere umano, dice delle frasi astratte con uno sguardo così disperato e così pieno di vita che è una cosa meravigliosa. È piegato su se stesso, ma nonostante questo c’è una fiamma dentro di lui che è difficilissimo spegnere. È un’energia pazzesca, e io me la godo un po’ ogni sera”.

Infatti nonostante i suoi 100 anni,riesce a conservare  sprazzi di invidiabile lucidità  come lo testimonia un aneddoto risalente a qualche tempo fa, raccontato dalla sua signora.

Vedendo un tizio ossessivamente presente in tv, le ha chiesto chi fosse. Lei glielo ha spiegato, al che Gianrico ha commentato: “L’è un bel pistola”.

Quel tizio era Salvini.

Federico Miceli

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