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Tra Filosofia e Sentimento. In cosa consiste la felicità?

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Tra filosofia e sentimento

Difficile rispondere alla domanda che attanaglia l’umanità da tutta la storia, il dubbio che governa la nostra vita, l’obiettivo che perseguiamo costantemente e che risponde ad un bisogno imprescindibile, connaturato alla nostra stessa natura, cioè il desiderio di essere felici

Cominciamo col dire che nella storia del pensiero sono state abbozzate molte definizioni di cos’è la felicità.

Se pensiamo ai grandi filosofi,  possiamo citare Aristotele, per il quale “la felicità dipende da noi stessi”,  quindi non è un insieme di esperienze piacevoli o una condizione di ricchezza o status sociale, ma è piuttosto uno stato mentale che si ottiene facendo “la cosa giusta” in ogni momento.

Da una delle infinite perle di saggezza che ci ha lasciato Confucio: “più un uomo medita su buoni pensieri, migliore sarà il suo mondo e il mondo in generale”, possiamo notare come il saggio tocchi un punto fondamentale che non va sottovalutato mai: il nostro pensiero, unito alla nostra attenzione, il benessere che deriva dal nostro pensare positivo e generoso,  è quello che migliora il nostro vivere, fino a farne qualcosa di bello.

Condivido il pensiero di una parte della Psicologia, che ritiene  fondamentale, per rispondere a questa domanda, guardare le cose da una prospettiva diversa, per evitare l’errore che spesso si compie, cioè di considerare la felicità come la conseguenza di qualcosa, mentre essa è il punto di partenza di ogni successo.

La felicità è parte di un percorso di costruzione di noi stessi, Per ogni cosa che vorremmo intraprendere, o progetto che vogliamo realizzare, se il nostro vero desiderio è portarlo a compimento, dobbiamo prima concentrarci sulla costruzione della nostra felicità personale, per la quale è necessario trovare il significato, cioè il senso della vita che appartiene a noi e a nessun altro. Per poterlo comprendere dobbiamo entrare in contatto intimo con la nostra anima e ascoltarla.

Tutti noi  aspiriamo alla gioia, al godimento, facciamo del tentativo di essere felici il nostro quotidiano  ricercare, e da sempre , come sosteneva Schopenhauer, siamo immersi nel dolore, nella fatica che ci costa  adoperarci per raggiungere i nostri obiettivi,  nella convinzione che questo o quell’altro desiderio soddisfatto possa rappresentare l’agognata felicità. E quando la meta raggiunta si rivela  dopo un po’ insoddisfacente, ricomincia la nostra ricerca,  che continua incessante.

Nella  società odierna, ahimè, noi essere umani siamo spinti da una forza che ci costringe a volere sempre di più, un motore che non si ferma mai: la sete di successo personale.

Per questo motivo ogni conquista si rivela piacevole nel momento stesso e quasi insignificante subito dopo, condizione mirabilmente descritta dal grande Shakespeare “Si soffre molto per il poco che ci manca e gustiamo poco il molto che abbiamo.”

L’errore che ci accomuna è quello di non  dare  la giusta importanza a ciò che abbiamo e darne molta a ciò a cui aspiriamo.

In realtà, la domanda migliore da porsi sarebbe: “Conquistare la meta è davvero tutta la mia felicità?” E ancora: “se non conquisteremo mai il nostro oggetto di felicità, non saremo mai felici?”

Tutto questo dibattere trova un senso e una risposta  completa  in quella bellissima frase di S. Agostino che non può  non essere ricordata, perché rappresenta il punto di arrivo, la fine di ogni inquietudine umana e nello stesso tempo l’approdo sicuro per ogni incertezza: La felicità è desiderare quello che si ha. (Agostino D’Ippona)

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